Gramsci,  italiano,  studi

1955 – R. Guiducci, Gramsci e la scienza

Roberto Guiducci, Gramsci e la scienza: l’oggettività come conquista storico-sociale dell’uomo, in «Questioni» [Torino], I, n. 4-5, 1955, pp. 29-45

Roberto Guiducci (1923-1998), ingegnere, urbanista, sociologo.

Gramsci, accingendosi a formulare il suo punto di vista sulla tanto dibattuta questione dei rapporti fra uomo e natura, dalle cui implicazioni filosofiche generali discende l’impostazione del problema della scienza nel suo complesso e quello delle scienze naturali sperimentali in particolare, ritiene necessario discutere innanzitutto i presupposti della questione stessa. E’ possibile infatti affrontarla ancora accettando la distinzione fra uomo e mondo esterno, cui fanno capo, con altrettanto elaborate pretese di ragione, le antitetiche concezioni soggettivistica e materialistico-realista? E’ lecito accettare la stessa tradizionale terminologia del problema? E’ giustificato porsi, all’interno e da una parte sola di queste contrapposizioni filosofiche? E, soprattutto, sussiste ed ha ragione d’essere, nel materialismo storico, questo stesso problema nella sua accezione tradizionale, posto cioè come problemi dell’esistenza (o realtà) o non esistenza (o non realtà) del mondo esterno e come problema della sua conoscibilità o inconoscibilità?
Gramsci introduce la discussione prendendo le mosse dalla critica alle formulazioni di Bukharin contenute nel Manuale popolare di sociologia marxista (1921) e nella memoria da questi presentata al « Congresso di storia della Scienza », tenuto a Londra nel 1931. Preposto alla trattazione il titolo significativo, che riteniamo di suo pugno, « La così detta “realtà del mondo esterno”», in cui non solo l’aggettivo, ma anche l’uso sospensivo delle virgolette danno sufficiente indicazione di tutta la diffidenza dell’autore verso un problema così posto, Gramsci afferma subito che «tutta la polemica contro la concezione soggettivistica della realtà, con la quistione “terribile” della “realtà oggettiva del mondo esterno”, è male impostata, peggio condotta e in gran parte futile e oziosa » e ripete piú avanti, da un punto di vista piú generale, che un chiarimento definitivo sul problema «avrebbe la piú grande portata culturale, perché metterebbe fine a una serie di discussioni futili quanto oziose e permetterebbe uno sviluppo organico della filosofìa della prassi, fino a farla diventare l’esponente egemonica dell’alta cultura» (M. S., p. 139).
Ne discende dunque subito che la presa di posizione netta e quasi irritata di Gramsci verso l’impostazione del problema in termini tradizionali non implica una sottovalutazione del problema stesso. Al contrario, esso viene considerato di tale importanza da poterlo ritenere uno dei passaggi chiave per lo sviluppo in senso egemonico della concezione marxista nel suo complesso.
Ma prima di passare all’esposizione del pensiero di Gramsci sul problema, ci sia consentito chiarire ‘ che non possediamo una prova documentata per stabilire se, nel periodo in cui egli scrisse le pagine dedicate al nostro argomento (le fondamentali sono del 1933-1934), avesse potuto conoscere L’ideologia Tedesca ed i Manoscritti economico-filosofici di Marx usciti rispettivamente per la prima volta nel 1932 e 1933 in edizione tedesca.
Dai suoi scritti non risulta però alcun riferimento né esplicito né implicito a queste opere marxiane, per cui pare del tutto probabile l’ipotesi negativa. E, supposta questa ipotesi, sarebbe davvero straordinario osservare come Gramsci raggiunga molto spesso le stesse conclusioni di Marx, pur seguendo una via personalissima, se non fosse facile constatare come, procedendo su alto livello con il metodo del materialismo storico, sia naturale giungere a conclusioni concordanti.
Nel quadro del materialismo storico prende infatti le mosse l’argomentazione gramsciana: il problema non sarà dunque impostato immediatamente sul terreno teoretico, ma situato, in un contesto storico in cui le posizioni antitetiche saranno viste incarnarsi nei gruppi sociali che ne sono i portatori e in cui le formulazioni filosofiche prenderanno corpo nelle ideologie contrapposte rivelandone la portata ed il peso nella pratica.
Gramsci osserva che di fronte all’antitesi delle estreme posizioni idealistica e materialistico-realistica « il pubblico popolare » non opera neppure la scelta, «il pubblico “crede” che il mondo esterno sia obbiettivamente reale» e direttamente conoscibile, anzi «non crede neanche che si possa porre un tale problema» (M. S., p. 138).
Per trovare diffusa la concezione soggettivistica bisogna arrivare ai gruppi intellettualmente piú evoluti, agli esponenti cioè della cultura piú avanzata e approfondita. E la frattura fra le due concezioni è così grave e netta che «il pubblico popolare», di fronte alle formulazioni della concezione soggettivistica, ne fa oggetto di così clamoroso sarcasmo che il linguaggio dell’alta cultura si presenta come « un gergo che ottiene lo stesso effetto di quello di Arlecchino » (M. S., p. 139).
Ma pur non accettando quelle concezioni che distaccano, senza possibile ammissione di legami, il linguaggio del senso comune da quello della scienza, sembra lecito chiedersi quali siano l’origine ed il valore critico dei due linguaggi. Si può allora constatare, secondo Gramsci, che « il senso comune afferma l’oggettività del reale in quanto la realtà, il mondo, è stato creato da dio indipendentemente dall’uomo, prima dell’uomo; essa è pertanto espressione della concezione mitologica del mondo » (M. S., p. 55).
La credenza dell’oggettività del mondo è dunque « di origine religiosa, anche se chi vi partecipa è religiosamente indifferente » (M. S., p. 138). E, «d’altronde il senso comune; nel descrivere questa oggettività, cade negli errori piú grossolani; in gran parte è ancora rimasto alla fase dell’astronomia tolemaica, non sa stabilire i nessi reali di causa ed effetto, ecc., cioè afferma “oggettiva” anche certa “soggettività” anacronistica, perché non sa neanche concepire che possa esistere una concezione soggettiva del mondo e cosa ciò voglia o possa significare» (M. S., p. 55).
Di contro a questa concezione, che trova pieno appoggio e favore non solo nelle correnti cattoliche, ma anche in non poche conciliative filosofìe borghesi, «è certo che la concezione soggettivistica è propria della filosofia moderna nella sua forma piú compiuta e avanzata, se da essa e come superamento di essa è nato il materialismo storico» nel quale trova, fra l’altro, con la teoria delle sovrastrutture, sbocco storicistico lo sforzo metodologico dell’idealismo, tradizionalmente formulato solo per via speculativo-astratta (M. S., p. 139).
Il marxismo traduce infatti «l’affermazione idealistica che la realtà del mondo è una creazione dello spirito umano » nell’affermazione della storicità e caducità di tutte le ideologie» «perché le ideologie sono espressioni della struttura e si modificano col modificarsi di essa»(M. S., p. 139).
Non riteniamo essenziale approfondire qui il problema delle origini della concezione corrente « del senso comune. In realtà gli scambi fra religione e senso comune sono stati molto complessi e quest’ultimo è andato raccogliendo oltre che influenze religiose tutto un bagaglio di filosofie arretrate o antiche e in questo senso, come dice Engels, «deteriori» nel gioco vivo della contemporaneità. In ogni caso ci sembra senz’altro esatta l’interpretazione gramsciana del senso comune come portatore di concezioni mistificate, ambivalenti, conservative e perciò sterili e passive sul terreno di una ideologia progressiva.
Quello che qui importa considerare è che il materialismo storico, fondandosi insieme come erede e come traspositore su terreno sociale-politico dell’idealismo hegeliano non può a nessun titolo allearsi con le posizioni del senso comune contro quelle stesse formulazioni soggettivistiche che gli hanno fornito gli elementi sostanziali di metodo. Con la negazione totale dell’origine soggettivistica in nome del materialismo del senso comune non sarebbe piú consentita la sintesi di materialismo e idealismo, e si darebbe oggi luogo ad un materialismo forse formalmente piú raffinato, ma in realtà non meno metafisico e contradditorio di quello cosiddetto volgare.
La contrapposizione del senso comune contro ogni concezione soggettivistica non può avere dunque altra spiegazione se non quella di rappresentare drammaticamente «il caso piú tipico della distanza che si è venuta formando tra scienza e vita, fra certi gruppi di intellettuali, che pure sono alla direzione “centrale” dell’alta cultura e le grandi masse popolari» (M. S., p. 139).
Che poi in realtà « l’uomo attivo di massa » possa, entro certi limiti, ugualmente operare in senso progressivo portando dentro di sé i residui della concezione del mondo secondo il senso comune, non è condizione sufficiente per secondare la sua posizione acritica.
E’ accaduto invece che alcune correnti marxistiche abbiano imboccata la strada della conciliazione con il senso comune per particolari ragioni tattiche o polemiche contingenti, avviandosi o verso concezioni materialistico-meccanicistiche che accettano « la concezione della realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma piú triviale e acritica » (M. S., p. 141), o verso concezioni materialistico-scientifiche che insistono sul « valore delle scienze cosiddette esatte o fisiche » tanto che ad esse viene attribuita la posizione « di un quasi feticismo anzi della sola e vera filosofia o conoscenza del mondo » (M. S., p. 139).
L’una e l’altra non sono poi, a ragione veduta, che varianti di una stessa concezione dei rapporti fra uomo e natura, derivante dalla medesima posizione di accordo con il senso comune: la prima, piú antica, crede nella conoscenza diretta, immediata; la seconda ammette la mediazione della scienza, ma le attribuisce facoltà gnoseologiche assolute. Il curioso è che entrambe, come appunto osserva Gramsci, si concilino anche con le concezioni religiose correnti sempre ben disposte ad ammettere che l’uomo scopra via via le leggi della preesistente costruzione divina e che ogni livello di sapere sia, in certo senso, definitivo anche se approfondibile, perché è parte della verità totale teologicamente prestabilita.
D’altra parte bisogna saper comprendere quale forza di attrazione può aver avuta su una ideologia rivoluzionaria corrispondente ad un movimento ancora alle origini la possibilità di conciliarsi in un primo tempo con il senso comune, accanitamente ostile ad ogni spostamento del suo pensiero soprattutto su questioni apparentemente indirette nello sviluppo della lotta politica.
Del resto era parso possibile, a taluni pensatori marxisti, di capovolgere il «versus» del senso comune da concezioni religiose a concezione strettamente materialistiche. Ma la garanzia dell’accento su uno dei termini di una concezione in realtà ambivalente non può sussistere che per via dogmatica, dato che la struttura stessa del pensiero non determina univocamente una direzione. Ed è infatti questa appunto la strada imboccata dal cattolicesimo moderno nei confronti delle scienze naturali: esso le accetta purché siano teologizzate.
Ma l’intransigenza gramsciana, se considera giustificabile un simile atteggiamento per i periodi iniziali particolarmente aspri e difficili della lotta passata, non ammette questa possibilità tattica nel quadro dell’ideologia marxista moderna : «La posizione della filosofia della prassi è antitetica a questa cattolica: la filosofia della prassi non tende a mantenere “semplici ” nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali » (M. S., p. 11).*
E questo spostare la cultura delle masse al piú alto livello possibile non è per Gramsci fatto accessorio, auspicabile, ma necessità prima, essenziale. La rottura fra un mondo moderno di operare e una vecchia visione del mondo secondo canoni mistificati del senso comune può infatti condurre a conseguenze gravi « sulla condotta morale, sull’indirizzo della volontà, in modo piú o meno energico, che può giungere fino a un punto in cui la contradditorietà della coscienza g non permette nessuna azione, nessuna decisione, s nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica » (M. S., p. 11).
La posizione di Gramsci va dunque chiarendosi: se il senso comune rispetto ad una concezione generale del mondo è rimasto « tolemaico, antropomorfico, antropocentrico » (M. S., p. 120), se esso « è un aggregato caotico di concezioni disparate e in esso si può trovare tutto ciò che si vuole » (M. S., p. 121), occorre dare avvio ad una nuova apertura di visuale in contrasto con il senso comune, cioè creare un nuovo senso comune, coerente con l’ideologia piú avanzata.
Ma come superare la concezione realistica, senza cadere nell’idealismo, come nutrire il materialismo del metodo presente nelle filosofie soggettivistiche, provenienti, è vero, dall’alta cultura, ma estranee ed anzi avverse alla concretezza storicistica? Anche qui, come già prima nel chiarire le varie posizioni rispetto al problema dell’oggettività del reale, Gramsci si avvale dell’analisi materialistico-storicistica : in una società rotta, divisa in classi fra loro in lotta, ogni gruppo, o corrente, o ideologia cerca di dimostrare di possedere la verità e di poterla conoscere.
Gli uomini in lotta tendono sempre a pretendere, come già negli antichissimi tempi, di avere gli dei sopra la loro testa e dalla propria parte. Ciò corrisponde nell’epoca moderna al poter affermare « la forza delle cose lavora per me », così che « la volontà reale si traveste in un atto di fede, in una certa razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza, ecc. delle religioni confessionali » (M. S., p. 14).
In quest’ordine di certezze, psicologicamente confermative, stanno anche le affermazioni sulla conoscibilità del mondo esterno, sulla oggettività di tale conoscenza, ecc., in breve sta la presunzione di potersi collocare da un punto di vista assoluto, ‘ dal punto di vista della verità come tale.
A questo punto il problema della verità è però ipostatizzato e ogni ricerca è rivolta nel migliore dei casi al suo approfondimento accademico, alla predicazione o alla imposizione alle parti avversarie. Ma occorre non equivocare: accade a tratti che si presentino nella storia ideologie rivoluzionarie con carattere egemonico e che sia del tutto positiva e lecita la loro affermazione ed estensione. E’ possibile però dimostrare che nell’epoca moderna a queste ideologie non occorre il suffragio dell’assolutezza per raggiungere un livello egemonico e che, anzi, tale attribuzione ne rende piú difficile il cammino e, ad un certo punto, tende a bloccarlo.
E’ ciò appunto che Gramsci chiarisce, domandandosi se nel quadro del materialismo storico può essere valido un punto di vista assoluto, se si può cioè ammettere l’esistenza di una oggettività extrastorica ed extraumana. E si chiede: «Ma chi giudicherà di tale oggettività? Chi potrà mettersi da questa specie di “punto di vista del cosmo in sé” e che cosa significherà un tale punto di vista? » e ne deduce che: «Può benissimo sostenersi che si tratta di un residuo del concetto di Dio, appunto nella sua concezione mistica di un Dio ignoto». Infatti oggettivo non può che significare «sempre “umanamente oggettivo”, cioè che può corrispondere esattamente a “storicamente soggettivo”, cioè oggettivo significherebbe “universale-soggettivo”». «L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie non universali concrete, ma rese caduche immediatamente dall’origine pratica della loro sostanza » (M. S., p. 142).
Gramsci, dunque, non ammette la possibilità da parte di alcuna ideologia di pretendere ad una gnoseologia assoluta, e neppure un’ideologia rivoluzionaria può pretenderlo, anche se essa tende ad una posizione egemonica, perché appunto l’affermazione della sua egemonia sta nel porsi il compito di unificare il genere umano sul piano sociale e quindi anche su quello culturale generale e non già di presentare come conseguito il risultato. « C’è quindi una lotta » continua Gramsci « per l’oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l’unificazione culturale del genere umano » (M. S., p. 142).
L’oggettività è dunque intesa qui da Gramsci come consenso intersoggettivo, come posizione comune, come accordo di rapporti dell’uomo con l’uomo, di rapporti degli uomini fra loro verso le cose, al di là degli esiti positivi e conclusivi della lotta di classe. Ciò che l’idealismo affidava e fissava ad una vicenda atemporale dello Spirito, viene incarnato nello sviluppo di una storia terrena e faticosa degli uomini. «Ciò che gli idealisti chiamano “Spirito” non è un punto di partenza, ma di arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario» (M. S., p. 142).
Nella precisazione della distanza del materialismo storico da qualsiasi forma di idealismo, si completa rigorosamente l’argomentazione gramsciana sulla tanto dibattuta questione della formazione e del valore delle concezioni oggettivistica e soggettivistica del reale.
I due risultati cui approda Gramsci: la caduta della antinomicità di oggettivo e soggettivo per la loro unificazione concreta, e l’affermazione della parzialità di tutte le ideologie, ivi compresa la giudicante, in un’epoca rotta dalla lotta di classe, offrono senza dubbio una chiave di prima importanza per una serie di interpretazioni dei problemi sovrastrutturali moderni.
E se un dubbio potesse nascere circa le maggiori difficoltà che la concezione gramsciana pone rispetto a precedenti teorie assolutistiche, si potrebbe subito rilevare come sia in realtà piú facile ora affrontare qualsiasi posizione avversaria che pretenda di attribuirsi un carattere di universalità, riducendola alla sua propria posizione storico-sociale di parte e battendola poi, sul suo stesso terreno, con il mostrarle prima questa contraddizione e poi tutte le altre.
Questo tendere al fine di una oggettività umana a carattere universale non è però soltanto una idea-forza, ma trova profonde radici nel presente per giustificarne la pretesa concreta per il futuro.
Già Marx, di fronte alla possibile obbiezione se l’unione fra l’uomo e natura dovesse vedersi soltanto come risultato di una società aclassista e pertanto non garantibile se non utopisticamente, aveva chiarito che tale unione aveva avuto luogo da tempo immemorabile nell’industria, cioè nel lavoro associato, ma che gli uomini non potevano fruirne per il vizio dell’alienazione.
Gramsci, dal canto suo, chiarisce che l’identificazione fra oggettivo ed universale-soggettivo è parzialmente anticipabile nel campo delle scienze naturali-sperimentali e nella tecnologia (e perciò in definitiva nell’industria). E tale anticipazione è ammissibile, perché in effetti non è tale, ma in gran parte risultato, entro certi limiti, già conseguito.
«La scienza sperimentale ha offerto finora il terreno in cui una tale unità culturale [l’unificazione culturale del genere umano] ha raggiunto il massimo di estensione: essa è stato l’elemento di conoscenza che ha piú contribuito a unificare lo “spirito”, a farlo diventare piú universale; essa è la soggettività piú oggettivata e universalizzata concretamente» (M. S., p. 142).
Infatti sul piano delle scienze sperimentali gli uomini parlano uno stesso linguaggio, si comunicano, con perfetta traducibilità,risultati conseguiti «indipendentemente gli uni dagli altri, purché essi abbiano osservato ugualmente le condizioni tecniche di accertamento» (M. S., p. 54).
E l’uscire da questo scambio non significherebbe altro che rimanere tagliati fuori dai rapporti, cioè annullarsi come uomini non solo mentalmente, ma anche materialmente e fisicamente. Infatti non è su un piano astratto che si verifica l’accordo, ma su quello del fare, cioè sul terreno del lavoro, inteso come manifestazione tipica ed essenziale dell’uomo. Stare al passo coi tempi è stare al passo con il lavoro industriale, cioè al livello necessario e sufficiente della vita civile.
Ed il constatare la rottura ideologica fra i vari scienziati, la loro spesso arretrata concezione generale del mondo, la continua metafisicizzazione dei risultati della scienza da essi stessi operata nei modi piú vari e contrapposti, se da un lato avverte che la ricerca nel mondo borghese è tutt’altro che « pura », ma ancora viziata, ritardata, ostacolata in forme diversissime e pesanti precisamente per l’inerzia di postulazioni sovrastrutturali conservative o addirittura reazionarie, dall’altro lato conferma la tesi gramsciana, perché, appunto, malgrado tutto questo, sul piano delle scienze sperimentali esiste già in larga misura una universalità concreta ed una possibilità piena di discorso comune.
Ma queste constatazioni potrebbero indurre pericolosamente una possibile domanda: se l’identificazione fra oggettivo e universale-soggettivo ha, per massima parte, già luogo nelle scienze naturali-sperimentali, non possono queste valere anche come piano di verità assoluta e servire come terreno di fondazione di verità alle gnoseologie, che ancora non godono e non possono godere di un carattere universale?
Naturalmente un simile impianto dovrebbe innanzi tutto essere subordinato, a sua volta, al fatto che i risultati delle scienze naturali-sperimentali costituiscano altrettante prove ontologiche sull’esistenza e natura della materia loro pertinente, intesa come oggetto di esse, cioè come «mondo esterno».
Ora, in primo luogo, la richiesta appare contradditoria con la stessa natura delle scienze perché «se le verità scientifiche fossero definitive, la scienza avrebbe cessato di esistere come tale, come ricerca, come nuovi esperimenti e l’attività scientifica si ridurrebbe ad una divulgazione del già scoperto » (M. S., p. 55), o ad un semplice approfondimento secondo binari tracciati; in secondo luogo la richiesta, insita nella scienza stessa. Infatti « anche nella scienza, cercare la realtà fuori degli uomini… appare niente altro che un paradosso. Senza l’uomo, cosa significherebbe la realtà dell’universo? Tutta la scienza è legata ai bisogni, alla vita, all’attività dell’uomo. Senza l’attività dell’uomo, creatrice di tutti i valori, anche scientifici, cosa sarebbe 1′”oggettività “? Un caos, cioè niente, il vuoto, se pure così si può dire, perché realmente, se si immagina che non esiste l’uomo, non si può immaginare la lingua e il pensiero » (M. S., p. 55).
E ancora, di fronte ad una affermazione tipicamente realistica di Russell che diceva non potersi pensare l’esistenza di Londra e di Edimburgo senza l’esistenza dell’uomo, ma potersi, viceversa, pensare l’esistenza di due punti uno a Nord e uno a Sud, dove oggi esistono due città, Gramsci osserva: «si può obbiettare che senza pensare all’esistenza dell’uomo, non si può pensare di “pensare”, non si può pensare in genere a nessun fatto o rapporto, che esiste solo in quanto esiste l’uomo. Cosa significherebbe Nord-Sud, Est-Ovest senza l’uomo? Essi sono rapporti reali e tuttavia non esisterebbero senza l’uomo e senza lo sviluppo della civiltà. E’ evidente che Est e Ovest sono costruzioni arbitrarie, convenzionali, cioè storiche, poiché fuori della storia reale ogni punto della terra è Est e Ovest nello stesso tempo » (M. S., p. 144).
Convenzionale la scienza, ma non per questo astratta, anzi realtà umana. Il termine « convenzionale » non deve indurre, precisa Gramsci, a possibili confusioni : convenzionale significa « storico-culturale », cioè presuppone un accordo universale, dotato perciò di carattere oggettivo. Infatti «spesso i termini “artificiale” e “convenzionale”, indicano fatti “storici” prodotti dallo sviluppo della civiltà e non già costruzioni razionalisticamente arbitrarie o individualmente artificiose » (M. S., pp. 143-44).
Le convenzioni dunque, ontologicamente senza senso, possiedono storicamente, nel campo della scienza, significati precisi e grazie ad esse si può « viaggiare per terra e per mare » e « giungere proprio dove si era deciso di giungere » (M. S., p. 144).
« Razionale e reale si identificano » (M. S., p. 144) nel senso che ogni formulazione scientifico razionale efficace stabilisce una realtà umana precisa e identificabile da tutti gli uomini che seguono determinate regole prestabilite.
E’ dunque chiaro che l’accordo umano sul piano scientifico non comporta. anche un valore metafisico-ontologico, ma resta un valore umano, un risultato felicemente raggiunto.
E questo valore, empiricamente constatabile, è autosufficiente e completo. Solo all’interno di esso si muovono gli autentici problemi. Infatti « ciò che interessa la scienza non è… l’oggettività del reale, ma l’uomo che elabora i suoi metodi di ricerca » (M. S., p. 55).
Non esiste un problema della scienza esterno ad essa, perché essa non ha bisogno di prove al di fuori della sua coerenza interna e della
sua efficacia, né si pone problemi che non siano di lavoro specifico.
Il vecchio problema del mondo esterno e della sua esistenza reale, risolto filosoficamente come problema dell’unità uomo-natura e risolto nel campo scientifico all’interno della stessa metodologia della ricerca, non risulta essere dunque ormai che un « falso » problema, appartenente alla metafisica tradizionale ed ormai privo di significato.
Tale problema, e ne abbiamo visto appunto la genesi, nasce infatti dalla richiesta da parte di filosofie ed ideologie di quella universalità che constatano nella scienza e che esse non sono in grado, per precise ragioni strutturali, di possedere. Per questo esse vorrebbero ontologizzare i risultati della scienza, e poi servirsi di essi come prova e sostegno di verità assoluta. Ora è importante rilevare come una concezione filosofica o ideologica che cerchi di fondare la propria validità sui risultati delle scienze sperimentali non solo neghi la propria capacità di reggersi come filosofìa o come ideologia, ma operi un’azione di irrigidimento e di fissazione dogmatico sullo sviluppo della scienza stessa da cui pretende trarre nutrimento e continuità.
Come vedremo piú avanti a proposito dei modi fecondi per la ricerca scientifica indicati da Gramsci, la credenza della verità ontologica dei risultati scientifici già latente nella mentalità corrente dello scienziato, spesso legato ancora alle concezioni del senso comune, se rafforzata sul piano filosofico generale, riduce lo sforzo inventivo, lo lega a predeterminati schemi mentali, non consente l’agilità e la spregiudicatezza dei tentativi anche arrischiati, alcuni fra i quali consentono poi gli autentici passi avanti della ricerca stessa.
«I principali “strumenti” del progresso scientifico sono di ordine intellettuale (e anche politico), metodologico» afferma Gramsci, citando Engels dove chiarisce l’origine storica degli strumenti stessi. E aggiunge: «Quanto ha contribuito al progresso delle scienze l’espulsione dell’autorità di Aristotele e della Bibbia dal campo scientifico?» (M. S., p. 153).
Tutta la storia della scienza documenta, accanto alla «pars construens» inventiva, l’enorme sforzo della «pars destruens» contro le cristallizzazioni filosofiche d’ostacolo che lo scienziato ha dovuto continuamente affrontare e rimuovere per liberarsi dai vincoli precludenti la libertà di ricerca.
E d’altra parte anche la storia della filosofia documenta il carattere chiaramente conservativo di tutte le posizioni ideologiche che hanno fissata la base della loro costruzione teoretica sui dati delle scienze sperimentali.
Queste filosofie infatti, che potremmo chiamare «scientistiche», dopo aver variamente elaborato su piano quasi sempre metafisico gli ultimi aspetti della ricerca scientifico-sperimentale, tendono implicitamente a frenare eventuali mutamenti di orizzonte o l’asse della ricerca stessa per non dover rinunciare o rivedere completamente le proprie formulazioni.
Gramsci dà due preziosi esempi di critica ad arbitrarie extrapolazioni filosofiche di risultati scientifici: uno, prendendo lo spunto da considerazioni fantastiche di G. S. Borgese su una affermazione scientifica di Eddington (vedi M. S., pp. 50-53), l’altro, criticando alcune errate illazioni di Bukharin sulla teoria atomica contenuta nel Saggio popolare (vedi M. S., pp. 160-62).
Possiamo soffermarci brevemente sul secondo esempio, piú ricco di implicazioni generali. Bukharin afferma che la nuova teoria atomica distrugge l’individualismo. Gramsci si chiede: «Ma cosa significa ciò? Cosa significa questo accostamento della politica alle teorie scientifiche se non che la storia è mossa da’ queste teorie scientifiche, cioè dalle ideologie, per cui per voler essere ultra-materialisti si cade in una forma barocca di idealismo astratto?» (M. S., p. 161). E continua dimostrando che neppure l’altra possibile ipotesi, se pure fosse lecita, potrebbe essere valida, quella, cioè, che sia stata una legge naturale (quella che presiede la concezione atomistica stessa) a distruggere l’individualismo, poiché in questo caso essa l’avrebbe già distrutto senza aspettare la convalida della teoria scoperta di recente dall’uomo.

La conclusione non può essere che anche «la teoria atomistica come tutte le ipotesi e le opinioni scientifiche sono sovrastrutture», per cui essa è valida unicamente nel campo specifico della ricerca fìsica in cui non possiede alcuna validità ontologica, per cui essa, lungi dal poter spiegare la storia umana, ne è viceversa spiegata nella sua collocazione in una prospettiva storicistica all’interno delle sovrastrutture del nostro tempo[1].
E’ appunto sul piano di queste considerazioni che Gramsci osserva che «è indubbio che l’affermarsi del metodo sperimentale separa due mondi della storia, due epoche e inizia il processo di dissoluzione della teologia e della metafisica, e di sviluppo del pensiero moderno, il cui coronamento è nella filosofia della prassi.
L’esperienza scientifica è la prima cellula del nuovo metodo di produzione, della nuova forma di unione attiva tra l’uomo e la natura. Lo scienziato-sperimentatore è anche un operaio, non un puro pensatore e il suo pensare è continuamente controllato dalla pratica e viceversa, finché si forma l’unità perfetta di teoria e di pratica» (M. S., p. 143).
Non c’è spazio dunque nel lavoro dell’uomo per fissazioni sistematizzatrici passivamente gnoseologiche. Non è questa neppure la strada per un suo conforto psicologico di certezza. Se mai, esso è nel consumare positivamente i risultati della propria attività, nel compensarsi esistenzialmente della propria fatica costruttiva.
«Porre la scienza a base della vita, fare della scienza la concezione del mondo per eccellenza, quella che snebbia gli occhi da ogni illusione ideologica, che pone l’uomo dinanzi alla realtà così come essa è, significa ricadere nel concetto che la filosofia della prassi abbia bisogno di sostegni filosofici all’infuori di se stessa » (M. S., p. 56). «In realtà», poiché « anche la scienza è una superstruttura, una ideologia » (M. S., p. 56), essa è uno strumento dell’uomo che può raggiungere il carattere di oggettività, ma non sul piano ontologico-metafisico, bensì su quello dell’accordo umano, strettamente legato al lavoro umano stesso. E tale lavoro è dotato di divenire e non solo è impossibile prevederne, a lunga distanza, le linee di sviluppo, ma è necessario lasciare ogni libertà a tutti gli eventuali spostamenti, rotture e innovazioni del suo processo interno.
L’uomo sa di non avere ancora ridotto a sé il mondo, di non averlo interamente umanizzato, e ciò perché egli avverte, e di continuo, la resistenza delle cose. Ma questo non comporta una postulazione «noumenica» delle cose stesse. La scienza, infatti, come non fissa alcuna forma di «conoscenza» metafisica, così «non pone nessuna forma di “inconoscibile” metafisico, ma riduce ciò che l’uomo non conosce ad una empirica “non conoscenza” che non esclude la conoscibilità, ma la condiziona allo sviluppo degli strumenti fisici e allo sviluppo dell’intelligenza storica dei singoli scienziati» (M. S., p. 55).
Ciò significa dunque soltanto che l’uomo non ha da porsi il problema di conoscere le cose, ma di conoscere i rapporti di sé con le cose, cioè di conoscere le cose come strumenti umani e tendere ad accrescerli e migliorarli.
Quali sono dunque i compiti e i modi specifici e pertinenti della ricerca scientifica nel campo delle scienze sperimentali?
Secondo Gramsci «il lavoro scientifico ha due aspetti principali: uno che incessantemente rettifica il modo della conoscenza, rettifica e rafforza gli organi delle sensazioni, elabora principi nuovi e complessi di induzione e deduzione,… l’altro che applica questo complesso strumentale (di strumenti materiali e mentali) a stabilire ciò che nelle sensazioni è necessario da ciò che è arbitrario, individuale, transitorio. Si stabilisce ciò che è comune a tutti gli uomini, ciò che tutti gli uomini possono controllare nello stesso modo, indipendentemente gli uni dagli altri, purché essi abbiano osservato ugualmente le condizioni tecniche di accertamento» (M. S., p. 54).
Il quadro fissato da Gramsci non permette slabbrature. La scienza è un complesso di strumenti materiali e logici sottoposto ai principi del rigore e della verificabilità.
Ciò che interessa la ricerca non sono dunque in nessun modo problemi di carattere assoluto o metafisico. «Ciò che interessa la scienza» è… «l’uomo che elabora i suoi metodi di ricerca, che rettifica continuamente i suoi strumenti materiali che rafforzano gli organi sensori e gli strumenti logici (incluse le matematiche) di discriminazione e di accertamento » (M. S., p. 55).
E Gramsci non va oltre su questo terreno ed i suoi accenni ad esso sono rari e indiretti. Egli, che pure era al corrente delle teorie scientifiche ed epistemologiche moderne, che conosceva opere di Eddington e di Russell, cui non erano sconosciute notizie sulla teoria della probabilità e della relatività ecc., non si permette extrapolazioni ed illazioni sulle loro impostazioni. Al di là di una messa a fuoco storicistica comincia infatti la ricerca specifica e tecnica. Il compito dello storicismo marxista in questo campo non è già, secondo Gramsci, di gravare la ricerca specifica di vincoli particolari, ma di offrirle la massima liberazione dagli « idola » soprattutto « fori » e « theatri ».
Per questo il quadro sui compiti della scienza esposto da Gramsci vale, paradossalmente, piú per quanto esclude che per quanto include, piú per la libertà che propone che per le indicazioni che dà.
E’ infatti nel grande motivo sulla libertà della ricerca che si sviluppano le considerazioni di Gramsci, dalla impostazione sui suoi limiti e diritti («chi fisserà “diritti della scienza” e i limiti della ricerca scientifica e potranno questi diritti e questi limiti essere propriamente fissati? Pare necessario che il lavoro di ricerca di nuove verità e di migliori… sia lasciato all’iniziativa libera dei singoli scienziati, anche se essi continuamente ripongono in discussione gli stessi principi che paiono i piú essenziali») (M. S., pp. 18-19), alla preoccupazione del rispetto dell’avversario («Non bisogna concepire la discussione scientifica come un processo giudiziario, in cui c’è un imputato e c’è un procuratore che, per obbligo d’ufficio, deve dimostrare che l’imputato è colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione». «Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario… significa… porsi da un punto di vista ” critico “, l’unico fecondo nella ricerca scientifica») (M. S., p. 21). Oltre queste indicazioni limite, Gramsci, spingendo piú addentro il suo discorso, pur mantenendolo rigorosamente nel campo storicistico (e in questo sta, appunto, la sua forza e insieme la sua scrupolosa misura), tocca alcuni punti cruciali su piano metodologico generale, primo fra essi quello riguardante il problema dell’unicità o della pluralità del metodo scientifico.
Gramsci osserva che ti si chiama “scientifico” ogni metodo» che sia «simile al metodo di ricerca e di esame delle scienze naturali, divenute le scienze per eccellenza, le scienze feticcio». Ora questa concezione positivistica e scientistica non ha piú ragione d’essere.
Lo sviluppo moderno della scienza ha dimostrato la possibilità della fondazione contemporanea di piú metodi per attaccare da piú lati anche uno stesso fenomeno. La vecchia preoccupazione ottocentesca dell’unità di metodo (cui corrispondeva appunto la concezione dell’assolutezza dello Spirito o della materia) viene a cadere. Oggi «non esistono scienze per eccellenza e non esiste un metodo per eccellenza, “un metodo in sé “. Ogni ricerca scientifica si crea un metodo adeguato, una propria logica, la cui generalità o universalità consiste solo nell’essere “conforme al fine”». (Passato e Presente, p. 162). Da ciò discende, come corollario, la chiarificazione della non validità del criterio di analogia: non è possibile applicare ad altri campi un metodo che ha successo in un settore (M. S., p. 136), né pensare che le leggi delle scienze naturali possano essere parallele a quelle della storia (M. S., p. 162).
Il secondo punto cruciale fissato da Gramsci è quello della chiarificazione della storicità delle scienze. Può avvenire «che una ricerca sia “scienza” in un certo periodo storico e non in un altro: infatti altro pregiudizio è che se una ricerca è “scienza” avrebbe potuto esserlo sempre e sempre lo sarà» (M. S., p. 261).
Queste considerazioni non solo pongono in chiare prospettive l’origine storica delle varie scienze tradizionali, ma soprattutto indicano la possibilità del continuo crearsi di nuove scienze che in parte si collocano accanto alle precedenti, in parte le assorbono esaurendole.
E quali i caratteri di una nuova scienza? «Una scienza nuova raggiunge la prova della sua efficienza e vitalità feconda… quando risolve con i propri mezzi le quistioni vitali… o dimostra perentoriamente che tali quistioni sono falsi problemi» (M. S., p. 130).
Esiste dunque una possibile fine di temi che, portati innanzi per anche lunghissimi periodi, si sono poi rivelati superflui o mistificati. La ricerca cambia rotta, esce da vicoli ciechi, si riaggancia alla realtà. Al continuo mutare dei fini, la scienza adegua i suoi strumenti. Infatti «in realtà “scientifico” significa “razionale”, e piú precisamente “razionalmente conforme al fine” da raggiungere, cioè di produrre il massimo col minimo sforzo, di ottenere il massimo di efficienza economica, ecc., razionalmente scegliendo e fissando tutte le operazioni e gli atti che conducono al fine» (Passato e Presente, p. 163). La scienza, appunto perché strumentale all’uomo, è a sua volta strumentale al fine, è il suo percorso, si identifica ad esso come risultato, è, in questo senso operativo, la sua verità.
Come la scienza sperimentale non patisce difetto dalla impossibilità di costituirsi anche come ontologia, cosi, come abbiamo accennato sopra, una concezione ideologica non ha di fatto bisogno di provarsi sulla scienza per sussistere ed essere feconda. Anche una ideologia può godere di oggettività e di generalità nel campo sociale che rappresenta, e la sua efficacia ne è la verifica. La sua autosufficienza sembra dunque senz’altro possibile.
In particolare «la filosofia della prassi » emerge, a ragione, con carattere di supremazia, potendo offrire, oltre che una sufficienza specifica, anche una coerenza interna che ne prova la cor-rettezza metodologica, precisamente denunciando la frattura storica presente tanto nel campo strutturale che sovrastrutturale, spiegabile con i conflitti di classe, e dichiarando apertamente il suo carattere storico di gruppo, di parte della società.
Ciò significa che oggi precisamente la deliberata rinuncia di una ideologia all’attribuzione di universalità e di assolutezza corrisponde alla sua unica possibile fondazione non contraddittoria. Il problema iniziale appare così completamente rovesciato: se l’universalità è l’attributo cui tende ogni filosofia, e se è in definitiva il punto di arrivo verso cui muoversi, l’attribuzione arbitraria di essa, quando sia dimostrata storicamente insussistente, è un errore di fondo, è presupporre come dato il risultato da conseguire, è evadere dall’autentico problema e dai mezzi concreti per risolverlo.
E’ qui infatti che occorre lavorare, riproponendo il problema in senso costruttivo, anziché proiettarlo in senso dimostrativo-contemplativo, imboccando una via, del resto e in ogni caso, sterile e oziosa. Ciò significa spostare l’asse del pensiero da un cercare prove di sostegno al dare prove di fecondità, dal conoscere all’operare, dalla ricerca definitoria a quella metodologica; metodologica all’interno dell’ideologia politico-sociale, metodologica all’interno delle varie scienze.
L’uomo di Gramsci, come già quello di Marx, è tutto volto alla costruzione del mondo umano e in primo luogo alla costruzione di se stesso. Conscio finalmente dell’angustia della sua situazione, egli non cerca piú di scoprire col semplice vantaggio di una giustificazione verbale le proprie difficoltà, ma di risolverle. « Ponendoci la domanda che cosa è l’uomo, vogliamo dire: che cosa l’uomo può diventare, se cioè l’uomo può dominare il proprio destino, può ” farsi “, può crearsi una vita. Diciamo dunque che l’uomo è un processo e precisamente è il processo dei suoi atti » (M. S., p. 27).
E atti dell’uomo sono i rapporti che egli stabilisce con gli altri uomini e con le cose: rapporti umani.
Ciò, non individualisticamente, bensì all’interno della società e all’interno del lavoro, per una risoluzione positiva dell’una e dell’altro. L’umano, ancora oggi lacerato da lotte e oppressioni, va inteso come punto di arrivo e non di partenza, come risultato di uno sforzo di ricostruzione positiva nei rapporti fra gli uomini e di costruzione tecnica feconda nei rapporti con le cose.
Da ciò discende che l’affermare « che la “natura umana” sia il “complesso dei rapporti sociali” è la risposta piú soddisfacente, perché include l’idea del divenire: l’uomo diviene, si muta continuamente col mutarsi dei rapporti sociali e perché nega “l’uomo in generale” (M. S., p. 31). Così pure l’uomo è il complesso dei rapporti con le cose in quanto «trasformare il mondo esterno,rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso» (M. S., p. 35).
Dunque l’uomo è da concepire come «un blocco storico» in divenire, ben radicato nel mondo e agente della sua trasformazione, in quanto in continua volitiva e cosciente modificazione di se stesso.
Spontanea sarebbe qui l’obbiezione che l’uomo non è tutto i suoi rapporti con gli altri uomini e con le cose, ma anche natura biologica, sia sul piano fisico che psichico, e che tale carattere ha un suo peso, ben preciso, una sua vicenda non trascurabile.
E l’obbiezione ha senza dubbio ragionevoli fondamenti e propone uno studio piú approfondito delle connessioni fra storia ed evoluzione naturale, fra i concetti di intervento e di costruzione e quelli di vicenda originaria, casuale. Ma Gramsci tende a porre in secondo piano i caratteri dell’uomo come «natura biologica» (l’uomo non è, egli afferma paradossalmente, né quello che mangia, né il paese che l’abita, né il colore della sua pelle, ecc.), perché tale aspetto gli appare come un dato» che non include l’idea del divenire o meglio che l’include per lentissime strade evoluzionistiche e perciò storicamente non decisive.
Il ridurre il concetto di uomo a una rete di rapporti giova comunque, nella concezione gramsciana, ad evitare ogni possibile caduta in una metafisica sull’essenza umana. Viceversa, l’uomo concepito come nucleo di rapporti, tesi in continua trasformazione, porta ogni problema sul terreno storico e metodologico e cioè sul come e perché l’uomo ha agito e sul come e perché l’uomo deve agire.
Fissata continuamente dunque in una prospettiva storicistica l’azione dell’uomo, non restai che definirne, con precisione,vari metodi operativi. Qui appunto interviene il compito delle scienze: scienze dei rapporti dell’uomo con l’uomo e scienze dei rapporti dell’uomo con le cose.
Scienze, si badi, ma non allo stesso titolo. Il termine «scienza», è accolto solo nel senso che «ogni ricerca ha un suo determinato metodo e costruisce una sua determinata scienza» (M. S., p. 136), cioè «scienza» vale ricerca guidata e coerente, come contrapposto al «senso comune» (in sé «equivoco, contradditorio, multiforme», sempre succube di posizioni mistiche o di filosofie deteriori e passive). Ma la distinzione non può essere classificatoria, bensì posta essa stessa storicisticamente.
Di fatto, come abbiamo visto, le scienze dei rapporti fra gli uomini non possono essere che di classe, di gruppo, e costituirsi, per ragioni antagonistiche, in campi opposti; le sole scienze naturali-sperimentali possono pretendere ad una parzialmente realizzata universalità e quindi disporsi sul piano dell’accordo e dello scambio biunivoco.
Ora, se per la filosofia della prassi il centro fondamentale è costituito dal concetto che il materialismo storico rappresenta «la storicizzazione concreta della filosofìa e la sua identificazione con la storia», filosofia si identifica con «metodologia generale della storia» (M. S., p. 126) e insieme con politica e perciò con scienza dell’uomo, in cui si possono separare solo didascalicamente, economia, sociologia, morale, ecc.
E’ dunque conseguente che tali «scienze» posseggano il carattere che è proprio dell’ideologia di gruppo piuttosto che quello delle scienze naturali sperimentali, e precisamente per la loro posizione di parte, tendente non ad una verificabilità universale (se mai all’interno dalla propria parte), ma precisamente a rompere una data situazione per costruirne un’altra qualitativamente diversa. Da questi concetti si sviluppa appunto la notissima polemica di Gramsci contro le concezioni che vorrebbero ridurre la filosofia della prassi a scienza sociologica descrittiva ed a scienza economica generale. Anche qui, dunque, il carattere universale non è punto di partenza, ma risultato cui tendere.
Da tutto ciò discende che la filosofia della prassi non comporta la costituzione di un’unica scienza comprendente anche le scienze sperimentali, e che questa limitazione non diminuisce il valore del materiale storico, in quanto esso continua a coprire ancora tutto il campo della ricerca umana in una continua prospettiva storicistica generale.
Se cioè i rapporti dell’uomo con l’uomo e degli uomini con le cose sono l’oggetto del materialismo storico, essi sono pure l’oggetto delle singole scienze naturali-sperimentali. Tali rapporti sarebbero quindi coperti per così dire due volte da una interpretazione storicistica generale e da quelle scientifiche particolari.
Gramsci dà un esempio chiarificatore di questa posizione a proposito del concetto di «materia».
«La filosofia della prassi non studia una macchina per conoscerne e stabilirne la struttura atomica del materiale, le proprietà fisico-chimico-meccaniche dei suoi componenti naturali (oggetto di studio delle scienze esatte e della tecnologia),ma in quanto è un momento delle forze materiali di produzione, in quanto è oggetto di proprietà di determinate forze sociali, in quanto essa esprime un rapporto sociale e questo corrisponde ad un determinato periodo storico» (M. S., pp. 160-61).
L’oggetto viene affrontato dai due possibili lati: quello storicistico generale articolato nei suoi aspetti (economico, sociologico, storiogra-fico, etico), e quello scientifico-naturale. Il materialismo storico verso le scienze naturali-sperimentali non si limita però al rispetto della loro autonomia, ma agisce in due sensi: si occupa dei risultati delle scienze naturali-sperimentali nella loro traduzione sociale-politica in forze di produzione, ed insieme coopera per il loro migliore sviluppo, introducendo quella componente storicistica che, se non tocca il lato specifico e tecnico della ricerca, consente però al ricercatore una lucidità snebbiata dalla metafisica o dai pesi tradizionali che ostacolano le sue capacità di lavoro. Se, dunque, le scienze naturali cavano dal nulla storico » nuove forze materiali a vantaggio dell’uomo, allargando e perfezionando nel mondo la sua «proprietà privata», le scienze economico-sociali hanno il compito di fare di queste forze un « elemento economico produttivo » organizzato nel quadro della concezione materialistico-storicistica che muove e guida il ritmo di questa fatica alla sua concretizzazione politica generale.
Come si vede, la concezione gramsciana è estremamente complessa e ricchissima di articolazioni interne: essa tende a mantenere il carattere di sintesi del materialismo storico e, nello stesso tempo, a favorire il piú ampio e libero sviluppo delle scienze sperimentali particolari, senza concedere alcuna indulgenza ad uno schematismo finalistico. Fissato infatti rigorosamente e stabilmente il quadro (la filosofia della prassi «deve trattare» «tutta la parte generale filosofica, deve svolgere quindi coerentemente tutticoncetti generali di una metodologia della storia, della politica e inoltre dell’arte, dell’economia, dell’etica e deve nel nesso generale trovare il posto per una teoria delle scienze naturali» [M. S., p. 128])[2], in cui è esposto appunto l’aspetto di sintesi del materialismo storico, Gramsci, e precisamente in forza della prospettiva storicistica ottenuta, lo rompe: nessuna filosofia può godere del carattere di universalità fintanto che permane lo stato di lotta di classe, anzi solo il riconoscimento della parzialità storica e la tensione verso l’unificazione strutturale e sovrastrutturale del genere umano la qualificano appunto come rivoluzionaria.
L’estrema sottigliezza dialettica dell’argomentazione scende in profondità: dopo aver costituito lo schema generale di impostazione, dopo averlo spezzato drammaticamente nella realtà storica, Gramsci si trova di fronte al problema di fondarne e giustificarne una possibile ricostruzione nel campo della sinistra rivoluzionaria. Il «blocco storico» di sinistra in cui «le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma, distinzione di forma e contenuto meramente didascalica» (M. S., p. 49), sarà il luogo di convergenza degli elementi positivi e attivi di una società in isviluppo, in cammino verso la risoluzione delle sue rotture interne.
Ed al concetto di «blocco storico» si connette strettamente e indissolubilmente quello di «egemonia». Le forze rivoluzionarie, ancora rappresentanti di una parte soltanto della società, unite nel blocco storico, ne possono rappresentare anche l’anticipazione unificata, una società futura «in nuce», in cui ogni atto è insieme sforzo di rottura e di negazione e sforzo di costruzione e di affermazione.
Per questo l’ideologia della classe rivoluzionaria ha, secondo Gramsci, il compito intrinseco di costituirsi al massimo livello culturale, di essere contemporaneamente forza di movimento e raccolta di valori culturali passati e presenti della società nella sua interezza.
Qui dunque è la chiave di tutto lo sviluppo del pensiero gramsciano che abbiamo percorso: dalla sua opposizione alle concezioni del «senso comune » alla sua attenzione ai risultati dell’«alta cultura », dalla sua avversione verso gli atteggiamenti quotidianizzati e contingenti alla sua preoccupazione di fondare una teoria non tanto immediatamente tattica quanto solida sulle grandi distanze storiche, sui fondamentali contenuti di fondo.
Tutta la fatica gramsciana si può riassumere nel suo programma di «determinare una ripresa adeguata della filosofia della prassi, di sollevare queste concezioni che si è venuta, per le necessità della vita pratica immediata “volgarizzando”, all’altezza che deve raggiungere per la soluzione di compiti piú complessi che lo svolgimento attuale della lotta propone, cioè alle creazione di una nuova cultura integrale, che abbia i caratteri di massa della Riforma protestante e dell’Illuminismo francese e abbia i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano» (M. S., p. 199). Una cultura su piano «europeo e mondiale» (M. S., p. 200) che promuova uno «sviluppo organico della filosofia della prassi, fino a farla diventare l’esponente egemonica dell’alta cultura» (M. S., p. 139).
Vent’anni fa dunque Gramsci vedeva già l’urgenza di riaprire porte e finestre alla monade marxista, di estrovertirla dalla propria arroccata solitudine, di opporla dialetticamente alle concezioni del mondo che continuamente si pongono e sviluppano, per esaminarne le possibilità metodologiche, per indirizzarne o angolarne diversamente il corso stesso verso problemi e realtà concrete e preminenti, per riportarsi sempre ad una altezza maggiore dell’avversario anche in senso strettamente tecnico.
Non abbiamo spazio qui per andare oltre alle premesse. Ci basti accennare, ritornando agli argomenti di cui ci siamo soprattutto occupati, come Gramsci indichi appunto questa possibilità con estrema larghezza, tanto che oggi si potrebbe comprendere una cautela maggiore ed una prudenza piú restrittiva. «La scienza, nonostante tutti gli sforzi degli scienziati, non si presenta mai come nuda nozione obbiettiva; essa appare sempre rivestita da una ideologia». «E’ però vero che in questo campo è relativamente facile distinguere la nozione obbiettiva dal sistema di ipotesi, con un processo di astrazione che è insito nella stessa metodologia scientifica, in modo che si può appropriarsi dell’una e respingerne l’altra. Ecco perché un gruppo sociale può appropriarsi la scienza di un altro gruppo senza accettarne l’ideologia» (M. S., p. 56).
E ancora a proposito della discussione su un passo del volume «La natura del mondo fisico» di Eddington, che comporta una presa di posizione verso le correnti epistemologiche moderne, Gramsci, dopo avere, e giustamente, osservato che queste posizioni, ancora legate ad «una fase transitoria e iniziale di una nuova epoca scientifica» possono richiamare antiche forme di sofistica, aggiunge: «Sofismi che tuttavia hanno rappresentato una fase nello sviluppo della filosofia e della logica, e hanno servito a raffinare gli strumenti del pensiero» (M. S., p. 53).
E inoltre «La metodologia piú generica e universale non è altro che la logica formale o matematica». «Questa metodologia astratta, cioè la logica formale, è spregiata dai filosofi idealisti, ma erroneamente: il suo studio corrisponde allo studio della grammatica, cioè corrisponde non solo ad un approfondimento delle esperienze passate di metodologia del pensiero (della tecnica del pensiero), a un assorbimento della scienza passata, ma è una condizione per lo sviluppo ulteriore della scienza stessa» (Passato e Presente, pp. 162-63), e aggiunge una proposta di studio dei lavori di Russell e di Peano.
Gramsci, in realtà, non giunge a prendere una precisa posizione verso le teorie moderne ed è anche chiaro che le sue informazioni sono frammentarie e discontinue[3].
Ma al di là delle posizioni particolari, ciò ‘che ci viene da Gramsci è in ogni caso una preziosa indicazione di metodo verso lo studio di questi problemi e, soprattutto, la precisazione di un atteggiamento.
La scienza moderna ha elaborato nei campi piú vari dell’economia, della sociologia, della statistica, dell’etica, dell’estetica, della biologia, delle scienze fisico-matematiche, una gamma estremamente estesa di teorie e di tecniche, spesso elaboratissime nei criteri di impostazione, di svolgimento e di accertamento.
In realtà la formulazione di queste scienze risente del contrasto politico-sociale quasi sempre conservativo in cui vengono elaborate. Per cui si presentano intrise di elementi estranei alla ricerca scientifica di fondo, spesso sono addirittura tradotte per fini nettamente reazionari o da essi irrimediabilmente travolte, e cooperano ad una ripresa dell’ideologia tradizionale già battuta dalle ideologie progressive su piano sia filosofico che politico.
Non vi è dubbio però che anche le armi con cui i vecchi schemi conservativi sono stati affrontati e sgretolati si sono usurate nel tempo. Occorre rinnovarle e spesso è lo stesso avversario che può offrirne qualcuna. Si tratta in un certo senso di portare avanti con continuità il gioco fatto da Marx su Hegel, ripreso da Gramsci su Croce e che oggi si può proporre su alcuni aspetti della filosofia e delle scienze moderne.
Va da sé che senza un forte pensiero originale questi contributi od innesti non avrebbero senso. Ma è anche vero che un pensiero originale non può crescere in un’oasi, in un recinto chiuso. Il pensiero storicistico marxista si può sviluppare anzi, secondo Gramsci, precisamente per sollecitazione dialettica, per contrasto, e l’esercizio sulle altre ideologie moderne consente appunto l’affermazione di due aspetti essenziali: il primo di essere nei loro confronti all’altezza dei tempi e per ogni lato e verso superiori, il secondo, che deriva dal primo, di porsi in ogni momento come fatto egemonico, cioè come forza dominante proprio anche perché capace di assorbire tutto il pensiero passato e presente, di farsi erede della fatica totale dell’uomo.
In questo bisogno di misurarsi, nella spinta curiosa, nel gusto dell’esperimento, nell’ambizione della scoperta sta infatti il nucleo essenziale del messaggio morale di Gramsci, della sua complicata presenza moderna, del suo coraggio di credere nell’efficacia delle sovrastrutture, nel suo insegnamento ad amare la verità come uccello diurno.

[1] E vale forse la pena di aggiungere, per togliere ogni possibile ingiustificata ombra d’idealismo nelle considerazioni di Gramsci, che dall’idealismo è evidentemente sempre così attentamente lontano, che non c’è niente di male nell’affermare che « come forza naturale astratta, l’elettricità esisteva anche prima della sua riduzione a forza produttiva » (M. S., p. 161), e che essa operava come « mera forza naturale (come scarica elettrica che provoca incendi, per esempio) ». Tutta la scienza si regge sulla postulazione empirica dell’esistenza delle cose, di cui l’uomo si accorge come « resistenza delle cose », come « empirica ” non conoscenza ” » (M. S., p. 55). Di qui infarti nasce il suo lavoro come bisogno di impadronirsene, di operare una scelta a suo vantaggio, di storicizzarla come « elemento di produzione » o, se si vuole, di fame il suo stesso « corpo inorganico » (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 88, Torino, 1949).

Ma ciò che importa osservare è che è appunto questo processo di conquista o di acquisto che interessa l’uomo, e non l’indugiare pericolosamente, per essere « ultramaterialisti », sulla contemplazione dei postulati empirico-esistenziali trasponendoli sul piano di una gnoseologia metafisico-ontologica del tutto tradizionale e conservativa.

[2] Naturalmente fuori di questo quadro cade ogni pretesa di fondare tout court una storia della natura o una storia generale dell’uomo e della natura come un tutto omogeneo. Questa pretesa presupporrebbe innanzitutto la possibilità di mettersi da un « punto di vista del cosmo in sé» (M. S., p. 142). Ma come potrebbe concepirsi « una storia in sé»? Tutto ciò che genericamente avviene ha storia, se per storia intendiamo un’evoluzione diretta e controllata secondo una linea traducibile in leggi? Al di fuori del punto di vista e dell’intervento dell’uomo, non vale ogni cosa come un’altra, ogni fatto come infiniti altri che compongono l’esistenza e la realtà? Non è, dunque, solo dell’uomo avere un’esperienza come storia? Gramsci ritiene esatta quest’ultima ipotesi e qui il problema di una storia della natura o addirittura di un» storia generale non gli appare che come un falso problema, una forma di «misticismo » passivo al posto di una posizione costruttiva; uno scambiare la storia dei rapporti dell’uomo con le cose come storia delle cose; un ribaltare all’indietro le leggi dell’evoluzione storica nell’evoluzione naturale; un antropomorfizzare il caso e il caos sui quali l’uomo ha tessuto si materialmente la sua trama, ma per liberarsene; uno scambiare insomma la fatica costruttiva dell’uomo per un destino biologico.

[3] E’ però in diversi casi possibile applicare la sua concezione generale verso alcune tipiche posizioni moderne. E’ implicita ad esempio nel suo pensiero l’affermazione dell’impossibilità di fondare nell’epoca presente una «scienza unificata», tentativo che è uno dei farti moderni pili importanti nel campo di una impostazione generale del problema della scienza e che fa capo a progetto per una « International Encyclopedia of United Science» curata dall’Università di Chicago, intorno a cui si sono raccolti e si muovono e lavorano i piú alti esponenti della cultura scientifica contemporanea. In realtà, se i risultati parziali possono essere del piú grande valore, il problema dell’unificazione di tutte le scienze anche intesa nel senso piú articolato e largo possibile, non può porsi oggi che come un fine da raggiungere, e non per via puramente speculativa, ma con la concreta unificazione culturale e sociale degli uomini.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *