Gramsci,  scritti giovanili,  testi

Nazione e pescicani

“Avanti!”, anno XXII, n. 28, 28 gennaio 1918.
Il neo direttore della “Gazzetta di Torino” prosegue imperturbato nella poderosa campagna intesa a dimostrare, scientificamente, la sterilità sociale delle ideologie sociali-ste in confronto alla fecondità degli ideali del cento per cento. Ma poiché la concretizzazione della sua teoria riuscirebbe assai difficile, e tale da diminuire inevitabilmente […] guadagni dei caratisti del giornale, egli svolazza egregiamente per le nubi […].
L’affermazione che si doveva “requisire l’opera e la proprietà dei fornitori e farli lavorare e produrre gratuitamente per la causa comune”, afferma il contraddittore, dimostra l’assurdo e incosciente semplicismo del pensiero socialista. Ma essa è semplicemente un paradosso […]. Poiché se il fine supremo è la grandezza della nazione, al quale tutto deve posporsi, la libertà, il diritto, gli interessi individuali, per la quale devono essere donati la salute e la vita, non vi dovrebbe essere alcuna eccezione, né alcuna categoria di beni dovrebbe sfuggire al sacrificio […].Tanto se ne accorge il signor Minunni, che è obbligato ad anteporre a questo “giusto dovere di maggiore uguaglianza sociale”, il vantaggio della maggiore produzione data dall’industria privata rispetto a quella statale. Ed egli ha ragione […]. La tassazione degli extra-profitti paralizza lo sviluppo industriale; questo il grosso argomento. Ma se lo Stato non avesse, pagando prezzi meno elevati, permesso lauti guadagni, la creazione di nuove industrie non sarebbe ugualmente avvenuta. In secondo luogo le officine che sono sorte, o l’ammortamento delle vecchie, non rappresentano affatto nuove ricchezze nazionali, ma semplicemente uno spostamento di ricchezza. Tutti noi italiani paghiamo piú forti imposte, ci accolliamo quote di debiti piú elevate […]. Che Minunni neghi questo fatto o lo giustifichi, al cospetto anche della morale e dell’economia borghese, ed io divento nazionalista.
Ma scendendo ancora piú nella realtà il sistema minunniano è quasi totalmente irrealizzabile. Diminuire i prezzi? Sta bene. Ma lo Stato ha bisogno di tutta la produzione nazionale; quanto piú questa aumenta tanto meglio è. Lo Stato ha bisogno che neppure una officina rimanga inattiva. E quindi deve fissare dei prezzi in modo che anche l’industriale marginale, che produce a maggior costo, possa lavorare e guadagnare. Onde il prezzo che per questi è minimo, è esagerato per quelli che hanno officine piú grandi, meglio impiantate e già ammortizzate. Perciò lo Stato dovrebbe, specialmente per le industrie metallurgiche e siderurgiche, fissare per i medesimi oggetti prezzi diversi a seconda delle condizioni dei vari stabilimenti. Un lavoro assolutamente impossibile. Quindi anche praticamente la tassazione degli extra-profitti è il miglior modo per ricuperare almeno una parte dell’oro […]. Il che del resto è provato dal fatto che tutti i governi hanno adottato questo mezzo, e non sono così sovversivo da credere che nessuno di essi abbia veduto e capito… quelle verità che sono cosi evidenti agli occhi di Minunni. Ma, infine, lasciando da parte tutte le ideologie, vi è un fatto sul quale sembra che accordo esista fra l'”Avanti!” e la “Gazzetta di Torino”: la convenienza di limitare gli extra-profitti. E allora lasci a noi di combattere la lotta come crediamo meglio, e la combatta il Minunni come a lui sembra piú opportuno. Ma la combatta. Questo è il punto iniziale della polemichetta: la sincerità delle affermazioni contenute nell’ordine del giorno del tenente Minunni, comprovata dall’opera del direttore della “Gazzetta di Torino”. Utilizzi il giornale, che egli ha a sua disposizione, per provare che i prezzi pagati dal Governo sono troppo alti e lo dimostri adducendo le prove che la sua sapienza economica, insieme all’esperienza degli amici e dei padroni, possono fornirgli.
Ma fino a che questo non avvenga […] egli non farà che disquisizioni teoriche, sarà troppo evidente che si tratta semplicemente di abili diversivi di un giornalista che, non osando difendere apertamente il cento per cento realizzato dai suoi padroni nelle forniture militari, propone, per diminuirlo, mezzi che essi padroni sanno già, a priori, irrealizzabili. Che se egli intimamente condivide queste opinioni è in mala fede, scrivendo ciò che ha scritto; se no, ha bisogno di parecchia altra scuola, poiché l’aver accumulato nei cassetti qualche centinaio di ritagli di giornali, non è sufficiente per permettergli di impartire lezioni. Io conosco qualche cosa di peggiore della demagogia e dei demagoghi: sono la plutocrazia e i suoi pennivendoli.

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