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L’amico che ti ha salvato la vita.

Oggi ho scoperto che in coreano esiste una parola per definire l’amico che ti ha salvato la vita. Quello con cui fino alla vecchiaia, condividerai un rapporto di gratitudine ormai incondizionato.

Non ho mai provato una cosa del genere, anche se ci sono alcune persone nella mia vita che mi sono state vicine in momenti particolarmente delicati e a cui, se non devo la vita, so bene che senza di loro non avrei potuto facilmente raccogliere tutti i pezzi. Hanno avuto un ruolo nell’accompagnarmi, senza far domande, senza “consigliare”, nel momento brutto. Un ruolo importantissimo, che definirei per le circostanze, e senza togliere loro il merito, fondamentalmente passivo.

Ma l’amico che ti salva la vita ha un ruolo attivo e tu accetti la mano che ti porge. La afferri e ti aggrappi. Con tutte le tue forze ti aggrappi e lui non molla.

C’è qualcuno del genere nella vostra vita? C’è qualcosa del genere nella vostra vita?

Nella mia c’è. Diversamente dalle conclusioni che potreste trarre, non è una persona (qualcuno di simile c’è stato, ma ora mi guarda da lontano). Un po’ perché sono uno spirito che difficilmente si lascia aiutare, un po’ perché se mi ficco nei guai mi ci tiro fuori da sola, non tanto per orgoglio, quanto piuttosto per l’impossibilità oggettiva che hanno gli altri nell’aiutarmi in contesti che ho creato e solo io posso disfare.

Ma arriviamo a parlare del mio amico… quello che mi ha salvato la vita. La storia inzia circa un anno fa, anche se le premesse si stavano creando pian piano inconsciamente già da prima.

Negli ultimi mesi del mio dottorato ero non sotto pressione. di più. Pian piano ho eliminato tutto il “superfluo”. E con questo termine orribile intendo tutti i rapporti umani esclusa mia madre e forse qualche fortuito incontro con mia cugina e mia zia. Ho terminato bruscamente una relazione con una persona meravigliosa, ma troppo diversa da me e dai miei sentimenti, cancellato amici e qualsiasi cenno di vita sociale. Lavoravo sulla mia Tesi. E’ stata una sofferenza di quelle che poi portano risultati. A cui però è seguito un periodo devastante.

Mi sono rinchiusa in casa, senza accorgermene, per mesi, mentre mandavo cv ad un mondo che non aveva intenzione di prendermi in considerazione. Studi inutili i miei. Conoscenze inutili le mie, se pur leggendo saggi fluentemente in 5 lingue non sai scrivere la letterina commerciale.

Questa la mia situazione. Un bagaglio culturale sopra la norma, con competenze informatiche nettamente sopra la norma, ma tutto questo non portava a nulla. Intanto, rinchiusa nelle mie stanze, per la prima volta ho sentito la parola neet nel cartone animato Higashi no eden. E poi volendo scoprire cosa fossero questi hikikomori, guardo NHK ni yokoso. Già dalla prime scene un senso d’ansia ha iniziato a permearmi, fino a raggiungere un mezzo attacco di panico tanto da spegnere. Per poi riprendere, per capire cosa mi infastidisse così tanto.

Era uno specchio.

Mi stavo guardando, ma ancora non lo sapevo. Il mio cervello completamente in polpa, a guardare cartoni animati in giapponese coi sottotitoli in italiano, a cercare qualche briciola di quel romanticismo che altrimenti mi negavo (nego, potremmo ancora usare il presente).

Passano i mesi. Quasi sei. Non un (UN) colloquio. Esco sul tardi per comprare qualcosa da mangiare, rapporto malato con tutto. Leggo sempre meno. Le illusioni intellettuali si moltiplicano al ricordo di un mondo accademico italiano che fa schifo tanto quanto i bunga bunga, anche e soprattutto per quelli che puntano il dito contro i berlusconi (che se ha rubato qualcosa almeno l’ha fatto a Firpo, non alle allieve dalle cosce chiuse).

Questa la mia situazione tra marzo, aprile, maggio. Un giorno, rivedendo il mio CV, stavo per cancellare, tra le lingue conosciute, il tedesco. “In fondo non lo so.”
Fermi tutti.
Una piccola parte di me, improvvisamente si sveglia e dice: “scusa, ma che cazzo stai facendo? Hai fatto un dottorato di ricerca completamente in tedesco, ci hai vissuto per anni e adesso vuoi togliere il tedesco dalle lingue conosciute? TU HAI QUALCOSA CHE NON VA.”.
Risveglio.
Negli stessi giorni ero su Skype con il mio cuginetto che stava dall’altra parte del mondo, tra Australia e Nuova Zelanda, spiegandogli il fallimento che sono e come non valessi niente, visto che nessuno era interessato né a darmi un colloquio e molto raramente una garbata riposta negativa a tutte le mie proposte di collaborazione o risposte ad annunci.
Il mio cuginetto, che è più sveglio di me milioni di volte, mi fa: “Betta, il fallimento non sei tu, è quel paese”.
Inizio a ragionarci sopra.
Mi son bruciata il cervello. Il problema non sono io.
E allora? Allora che se ne vada a fare in culo tutto, io inizio il Giapponese.

E così in un già caldo pomeriggio di maggio iniziai il Giapponese.
Qui inizia la storia vera. Inizia guardando da lontano qualcosa che pare così strano, difficile, incomprensibile. Ho cominciato non ad annusare come un cane ciò che vedevo di nuovo, ma scaletta alla mano mi ci son tuffata dentro, è come se quella lingua io l’addentassi, la mordessi a grandi bocconi. In meno di due settimane avevo imparato hiragana e katakana.
Dovevo partire per la Germania, ma nella mia situazione non era facile. Come sarei potuta uscire? Come avrei superato gli attacchi di panico che mi prendevano quando ero fuori?
Ecco, il giapponese, la lingua, aveva preso una forma. Vien da ridere a dirlo adesso, ma aveva un viso e un corpo. Quel viso e quel corpo me lo stampai su un piccolo pezzo di carta da tenere in tasca e la stessa immagine la scelsi come immagine di background per il cellulare.
L’idea per bypassare le mie ansie mi era venuta proprio grazie ad una delle interpretazioni di quella faccia che impersonava, volente o meno, quel che più mi piaceva del Giappone (per chi conosce la storia mi riferisco al braccialetto che Kyouhei regala a Sunako nel drama di Kamenashi). Così cellulare e fotina in tasca parto per la Germania e la cosa funziona. Era come se dalla mia io avessi un mondo intero.
Tornata a casa mi metto di buona lena e noto, evento già accaduto prima della partenza, che la sera, spazzolandomi i denti in bagno canticchiavo.
Canticchiavo?
Sì. Canticchiavo.
Di solito canticchio la sera quando sono innamorata.
Insomma… passavano i giorni e io mi innamoravo.
Dopo l’hiragana e il katakana iniziano i kanji e sì, non dico che inizio ad uscire regolarmente ma vado già dal dentista, riesco a prendermi maggiore cura di me.
Il tutto senza capire assolutamente nulla di quello che mi stava accadendo. Mi rendo però conto, guardando al fenomeno degli hikikomori, che inizio a studiare, oltre i cartoni animati, delle ragioni per cui mi sono chiusa, del cosa mi permette di uscire e cosa invece mi costringe a ritornare in casa. Perché, anche prendendo il coraggio a quattro mani, decisa ad uscire, mi spigiamavo, mi vestivo per benino, pronta ad uscire, ma… non riuscivo a varcare quella porta e mi inventavo scuse sempre più assurde. E sto parlando di andare a fare la spesa, non di vita sociale.
Quanto alla vita sociale è praticamente nulla, nonostante la parentesi coatta della Germania (era un convegno, avevo già pagato il biglietto aereo, ma ero lì lì per non andare): ricordo una sera (e questa è una confessione) quando dovevo andare da amici, serata organizzata per me, aveva fatto temporale. Sono arrivata fino alla fermata del pullman. Ho aspettato penso 2-5 minuti. E poi sono tornata indietro, mandando un messaggio chiedevo scusa, ma non sarei potuta andare.
In questo scenario, lo studio del giapponese ha una valenza doppia. Finalmente sentivo il cervello sciogliersi e sgranchirsi dopo un lungo torpore. La memoria fatica e io sforzavo, schiacciavo sull’acceleratore.
E passiamo all’acceleratore…
Se nei primi tempi (i primi 2 mesi, mettiamo) non ci avevo fatto molto caso, l’aver trovato la quadra con le severe dispense di grammatica di un’università tedesca, mi ha portato ad avere molto materiale su cui basarmi e di ottima qualità. Non solo più atomi da collezionare (imparare kanji), ma fare esercizio, tantissimo esercizio, tanto che la mano, verso sera duole veramente. In poco meno di due mesi ho consumato un numero rilevante di matite e poi di biro, tanta carta, un quadernone a quadretti di quelli tipo registro, 3 o 4 volte più spessi di quelli normali. Ho scritto tantissimo. Ed è stata una benedizione. Tra giugno e agosto ho studiato e mi sono esercitata sulle prime otto unità (di 14) del I semestre (su 3) del corso intensivo di cui parlavo sopra. E mentre la penna scivolava sulla carta ha iniziato a farsi sempre più palese un’emozione strana, che non ricordo di aver mai provato. Dovevo fare fare fare, studiare di più, scrivere di più, pian piano e unitamente ai miei interessi più terra terra, mi son resa conto che sentivo come se qualcosa/qualcuno mi stesse aspettando e io ero in ritardo. Questa specie di ansia, a dire il vero molto piacevole, è una delle componenti che più mi hanno motivata e continuano a motivarmi ancora oggi. E proprio questa, per una persona malata di inedia, è una salvezza.
Perché il punto centrale è questo: il giapponese mi ha salvata.
E non riesco a staccarmene. Per qualche tempo ho pensato di iniziare il coreano (lingua bellissima e musicale, familiare e calda), visto che lo studio dei kanji si è fatto vieppiù problematico (non dovrei aggiungere, ma lo faccio, che ci sono anche altre ragioni di carattere emotivo e ormonale). Ma non c’è verso. Il suono della lingua, ciò che rappresenta, è una piacevole corda che mi ha avvolta e da cui non riesco e, in fondo, non voglio liberarmi.
E così in pausa pranzo, prendo le mie dispense, il mio quadernetto e cerco di fare esercizio, ormai mi porto dietro esercizietti da fare a mente mentre sul pullman o in pausa caffè e sigaretta. Capisco che da fuori possa sembrare un comportamento da pazzi.
Inoltre, cerco di scrivere e di avvicinarmi più che posso a loro. Quelli che parlano giapponese. In questo avvicinamento, se in alcuni rapporti tutto è andato liscio perché non avevo interessi personali di sorta, quando è arrivato un nodo al pettine: io non ho capito niente. Credevo di non capire per una totale asimmetria di punti di vista. Dopo meno di due mesi ho avuto la possibilità di riprendere il discorso e realizzare quanto la mancanza di fiducia nell’altro possa farmi arrivare alle conclusioni più negative e farlocche, mentre la realtà è decisamente più semplice e ingenua.
Mentre stavo meditanto e soffrendo su questa situazione, giovedì 10 maro ho versato parecchie lacrime, non riuscendo a tenerle dentro agli occhi, un po’ come lamento per una situazione mia, un po’ per sfogo e rilassamento.
La mattina dell’11 marzo, improvvisamente mi sveglio di soprassalto, evento più unico che raro, visto che la mattina per svegliarmi ci vanno i cannoni. Guardo la sveglia (che punta alle 7.35) e vedo 07.12. Cerco di riaddormentarmi per i rimanenti venti minuti.
Mi sveglio, doccia veloce e accendo come sempre il computer. Apro la posta e twitter, come sempre. Avrei dovuto scrivere ad una di quelle persone a cui mi sono avvicinata. Ma prima di poter anche solo riprendere i pensieri e metterli in fila, leggo del terremoto. Mi fiondo a vedere BBC pacific and Asia. E poi Al Jazeera. Seguo tremolante sul mouse il discorso di Kan Naoto. Scosse, scosse e ancora scosse, di una magnitudo impensabile.
Sono effettivamente sotto shock, ma devo andare a lavoro e parto in ritardo.
La giornata di venerdì passa in una sostanziale incapacità di focalizzare la mia attenzione altrove e ad ogni indentazione di codice il pensiero ritorna là. Tramite twitter riesco a ricevere qualche notizia, torno veloce a casa, la sera e non so come trovo yokosonews in streaming. Un ragazzo traduce le conferenze stampa e le notizie che si susseguono, riporta con acribia ogni novità sulle zone colpite e per la prima volta in serata/nottata sento parlare di Fukushima. Della centrale nucleare di Fukushima e dei suoi reattori. Non ricordo esattamente quando fu, come fu. La preoccupazione si faceva sempre più grande, oltre agli tsunami a radere al suolo Sendai, ancora scosse praticamente ovunque nel lembo di terra di Nagano, Fukushima, Tokyo.
Poche ore di sonno, la mattina mi sveglio e alle 8 e qualche minuto sono già in strada. Sto andando in Chiesa.
Io, la comunista.
Arrivo in chiesa, ci sono signore che stanno facendo le pulizie. Faccio quel che devo fare. L’unica preghiera che ricordo ancora è l’Eterno Riposo. L’unica che in tanti anni ho sentito troppe volte. La dico, la ripeto, non piango. Sono distrutta, un fantasma, inginocchiata lì non so nemmeno io cosa sto facendo, ma se quella centrale nucleare… no no no. E ripeto quella strofa, quella preghierina. Provo un Ave Maria. non me la ricordo. Passo dalla prima frase alla seconda parte. Nemmeno il Padre nostro. Non servo a nulla, nemmeno a pregare.
Torno a casa non prima di aver fatto rifornimento di sigarette. Sarà lunga.
Ed è stata lunga. Ho passato il sabato e domenica di fatto senza far altro che guardare, tradurre, ascoltare, attendere. E ancora un’altra scossa, basta! Questo è un martirio, non è solo una catastrofe. E proprio a Fukushima si susseguono altre scosse. Basta! Basta! Basta! e nessuno parla delle centrali. O almeno non ancora. Uno dei reattori è ha creato una sacca di idrogeno e fatto esplodere i muri esterni. Tremo.
Twitto, ritwitto, seguo, salto da un sito all’altro: nhk, tbs, bbc, al jazeera e Kyodo news, cerco per quanto riesco di avere roba di prima mano.
Sono tremolante e non capisco assolutamente più niente di quel che mi sta accadendo, sono così tanto dentro che non mi accorgo di vivere.
Arriva il sabato sera. Mi lascio trascinare fuori di casa da amici per mangiare una pizza. Sono vecchi amici, con loro posso essere tutto quello che sono e che ero. Senza vergognarmi di dire cose non troppo giuste, cose non perfette, ridere con la bocca piena. Loro capiscono. E questo mi fa sentire in un altro mondo per un momento. Come se quel tempo ritornasse davvero. Parliamo di cose un po’ più serie, cose un po’ meno, ridiamo tra un boccone e l’altro. Io come al solito quando torno così non penso più a nulla, solo a seguire il filo del discorso e ridere. Uno stato di grazia, interrotto solo da qualche sospiro singhiozzato inconscio, di cui mi rendo conto solo dopo.
Parliamo poco di quel che sta accadendo nel mondo, ci prendiamo la nostra pausa, insieme, per coccolarci.
Il ritorno alla realtà certo non è indolore. Ancora notizie fino a tarda notte.
E arriva la domenica e poi il lunedì, dove finalmente mi rendo conto che forse per 48 ore ed oltre ho perso un po’ la testa.
Le persone con cui normalmente sono in contatto capiscono in buona parte il mio stato d’animo, ma io mi chiedo perché mai questa reazione esagerata. Così facendo prendo ad analizzare la cosa e mi rendo conto del fatto che forse sono stata veramente un po’ shockata. E che il mio cuore in qualche modo e per qualche ragione stava soffrendo e tentavo di reagire, far qualcosa senza fare in realtà nulla di ché. Rimanere attiva e attenta, perché preoccupata. E perché ero così preoccupata?
La risposta è arrivata naturalmente quando ho ripreso un po’ di riposo e ho cercato di uscire un po’ da quel loop.
Da più parti ho scritto e spiegato come se lo scorso anno non avessi avuto il Giapponese, sarei forse caduta in una depressione peggiore di quella sperimentata. Il giapponese, la lingua, è come se mi attendesse porgendomi una mano. E mi sono rialzata, aggrappandomi con tutta la mia forza a quella mano, al braccio.
Il mio approccio prima timoroso si è trasformato come in un innamoramento, tanto da canticchiare, felice. Ed ero felice mentre potevo darmi complemente a quello. E la fame aumentava, proprio mentre la vita di tutti i giorni premeva invece per farmi scendere in strada e ritornare tra la gente.
Sono passata da uno stato euforico di innamoramento a desiderarne sempre di più come un amante in attesa. E per mantenere questo rapporto ho iniziato a intessere rapporti dall’altra parte del mondo. E così nel giro di 6-8 mesi via email o posta normale si sono intensificati i rapporti con alcune persone. Di cui qui non dirò.
Siamo alla vigilia della primavera e il mio desiderio di andare ancora là, se un po’ vacilla con le preoccupazioni per le radiazioni, non riesco a staccarmi da questa lingua, ho una voracità incontrollabile. E se ho già avuto esperienze abbastanza invasive con altre lingue, questa le batte tutte. E un po’ perché glielo devo, un po’ per affetto, amore, piacere, tenerezza…
Intanto i giorni passano. Sono intenzionata a pubblicare queste righe, ma qualcosa ancora non va. Stamattina un’altra scossa di minore importanza, a Tokyo.
I miei paesaggi del futuro ..
e mentre sto scrivendo, le 23.15 del 22 marzo 2011, qui in Italia, dopo 11 giorni, un’altra grande scossa. il monitor diviso a metà tra questo editor spartano e il browser su twitter e vorrei scrivergli: cazzo, alzati vattene, fai qualcosa, non stare al pc a scrivere big aftershock #Tokyo #Meguro o still rocking #Tokyo #Meguro alzati, vattene, vattene e invece loro lì rimangono, a sostenersi. Perché in questi giorni ho capito poche, ma forse non inutili cose.
Loro non scappano.
Loro non hanno bisogno del nostro allarmismo.
Loro non ci ascolteranno più se ci poniamo come quelli che sanno… perché 1. noi non sappiamo, 2. noi siamo individualisti.
La loro compostezza non è un’attitudine eroica in senso idealistico e romantico, così facendo loro prendono un pezzetto della propria responsabilità affinché tutto il duro lavoro che finora hanno portato avanti non vada distrutto, sommandosi ai danni che stanno subendo.
In questi ultimi giorni il mio umore è decisamente migliorato, un po’ perché di scosse non se n’è più parlato, un po’ perché mi sono imposta di non accendere NHK o canali di commento appena torno a casa o non appena mi sveglio al mattino. Guardo poco e con parsimonia, perché ho il timore di rientrare in quell’incubo e sentire quei campanelli che mi han fatto vibrare fin le viscere.
mentre scrivo son percorsa da brividi e ho freddo: M6.0 quake hits #Fukushima at 07:12 JST [23.03.2011]

2 commenti

  • Daffy

    L’ho aspettata questa tua pagina di diario..poi sono stato male..e me la sono persa “in diretta”. Mannaggia 🙂
    Ora l’ho recuperata e letta tutta di un fiato.
    Bella! E quante cose riesci a far stare dentro a un pensiero tu. E che sofferenza che vien fuori dalle parole. Sei un personaggio curioso tu..
    Adesso ci sto più attento a non diventare anche io un Hikikomori…che io non avrei poi certo la forza per aggrapparmi allo studio del giapponese.. 🙂
    Un saluto.
    Daffy

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