Gramsci,  italiano,  studi

1987 – P. Glotz, Il moderno principe nella società dei due terzi

Peter Glotz*, Il moderno principe nella società dei due terzi, in «Il Contemporaneo», n. 8, 28 febbraio 1987, pp. 24-25.

Primo di tre articoli dedicati alla Germania, per lo speciale 1937-1987. A cinquant’anni dalla morte. Gramsci nel mondo.

Nell’affrontare i problemi particolari del Sud agricolo dell’Italia. Gramsci sviluppò, relativamente al problema di un’alleanza tra proletariato industriale e contadini, due concetti capaci di assumere un significato determinante nei conflitti sociali degli anni 80, cioè i concetti di «egemonia» e «blocco storico». Per due motivi, questi concetti sono di importanza addirittura vitale per la sinistra europea: in quanto non esiste in nessun paese – per lo meno in Europa occidentale – un’organizzazione o forza politica abbastanza potente da limitare e meno che mai spezzare il potere della destra in maniera continuativa, e perché meno ancora che all’inizio del secolo o negli anni della grande crisi, è possibile per i movimenti operai degli anni 80 del 20° secolo, puntare su sconvolgimenti economici o sulla fine del ciclo storico della borghesia.
Il punto di partenza di Gramsci – alla fine degli anni 20 – è stata la fragile egemonia della borghesia italiana. A meno di non volerci autoilludere, dobbiamo constatare che per quasi tutte le società industriali occidentali oggi è vero proprio il contrario. Fatto sta che ci troviamo alla fine di un’«onda lunga», di un ciclo secolare nello sviluppo dell’economia: le cifre dimostrano che, alla fine degli anni 80. attraversiamo una grave crisi finanziaria internazionale (con una schiera di paesi in via di sviluppo indebitati quasi senza scampo) e una crisi occupazionale che è la piú grave dagli inizi degli anni 30 (con milioni di disoccupati nei paesi dell’Ocse). Qual è la conseguenza politica di tale crisi? Un’offensiva della destra coronata da successi spettacolari in alcuni dei paesi chiave dell’Occidente: Stati Uniti, Repubblica Federale, Giappone e Francia. Quale conclusione trae la sinistra da questo sviluppo?
Per quanto riguarda la Repubblica Federale, vorrei tentare di analizzare questa situazione paradossale. Il gruppo economicamente dirigente costituito da una ristretta cerchia di possidenti e da imprenditori si è intanto – contrariamente a quanto avviene per sindacati e partiti di sinistra – efficacemente collegato sul piano internazionale. Tale gruppo ha «cooptato» non soltanto gli strati intermedi decisivi, bensì anche un terzo dei lavoratori. Oggi, importanti «opinion leaders» nelle imprese e nelle amministrazioni – l’intellighenzia tecnica e decisionale – hanno rafforzato la «vecchia» coalizione della destra, composta dall’«alta società», dai contadini, dai commercianti e dagli artigiani, dalla borghesia colta e dai lavoratori confessionalmente connotati (specie quelli cattolici). Nell’esercito, che non voleva piú essere scuola della nazione ma che lo è tuttavia, ormai il corpo dei sottufficiali in servizio prolungato, è quasi interamente dalla parte del blocco governativo, e il corpo degli ufficiali lo è (per lo meno oggi) per i quattro quinti. Nel corpo insegnanti, in seno al quale all’inizio degli anni ’70 la sinistra era in leggera maggioranza, oggi dovrebbe essersi ristabilita la parità con la destra, e fra i giornalisti la situazione è la stessa. Come può contro un simile blocco storico, una sinistra (oltretutto politicamente divisa) composta da operai specializzati, una parte della burocrazia statale (soprattutto quella inferiore), studiosi di scienze sociali scoraggiati, ai margini, e infine alcuni gruppetti sparsi della classe media, ingaggiare una battaglia e vincere una lotta?
Eppure, la situazione è favorevole; il governo Kohl non dispone di una formula entusiasmante, perde credito presso i contadini e si aliena gli strati tecnocratici intermedi per la sua goffaggine. Ma la ricetta dominante internazionalmente sperimentata per sopravvivere non è affatto avventuristica e nemmeno priva di realismo. Essa recita semplicemente: occorre addossare gli oneri dell’assestamento della crisi a una parte rigorosamente limitata della popolazione (per esempio a un terzo). Quando poi si fa in modo che questo «terzo» non sprofondi nella piú assoluta miseria, bensì ci si limita a favorirne il declassamento, il «degrado», l’operazione può senza meno riuscire. Io chiamo questa ricetta la strategia della «società dei due terzi».
Bisogna cercare di immaginare – tenendo presente le categorie di Antonio Gramsci – ciò che prova un giovane operaio o impiegato, i cui genitori facevano parte delle maestranze di base della società industriale e che oggi viene sospinto fra le maestranze marginali. Certo, il disoccupato, colui che è perennemente minacciato di disoccupazione, il pauperizzato, viene sospinto contro il blocco governativo. Però questo non significa necessariamente che egli venga mobilitato, poiché la miseria piú che mobilitare, demoralizza. Costui sarà estromesso dagli «strati intermedi» che il gruppo dirigente egemone organizza intorno a sé. Ma che cosa accade con le giovani famiglie i cui (due) sostegni, pur non riuscendo ad arrivare fino alle maestranze di base, cioè a far parte dei quadri non licenziabili e indispensabili di quei rami dell’industria che non sono soggetti a crisi, oppure a essere assunti nell’amministrazione pubblica, riescono tuttavia a tirare avanti, benché non garantiti? Cioè, cosa succede a coloro che vengono impiegati a tempo limitato oppure part time, che totalizzano solo una magra pensione per la vecchiaia, ma che tuttavia non sono stati del tutto emarginati? Sarà in grado la sinistra, così come è organizzata oggi, così come è rappresentata dai mass media, di raggiungere questi lavoratori? Oppure viceversa il televisore pagato a rate, compreso il videoregistratore, si trasformerà in apparecchio per la «dialisi ideologica» che continua a cambiare il sangue del paziente che vi è collegato?
Certo: se la crisi finanziaria (internazionale) portasse al collasso, se i risparmi dei ceti medi venissero dissolti e la disoccupazione salisse al 20%, il crollo sarebbe generale. Però, cosa avviene se tutto ciò (come è probabile e auspicabile da parte di tutti) non dovesse accadere? Se Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e nuovo management finanziario dovessero continuare a funzionare alla meno peggio? In queste condizioni che ne sarà allora dell’egemonia culturale nella società dei due terzi?
Siamo così ritornati di nuovo a Gramsci, alla sua idea di una vasta tendenza a sinistra come formazione moderna, alla sua esortazione agli «intellettuali» (che nel linguaggio corrente di oggi si chiamerebbero piuttosto «formatori di opinione»), al suo concetto di «fronte culturale» e, infine, alla sua analisi dei «papi laici» – con cui intendeva riferirsi a Croce. A quando risale l’ultimo esame attento e sistematico a cui la sinistra tedesca abbia sottoposto i «papi laici» della destra (paragonandoli ai propri)? Quando ha riflettuto sull’influenza perdurante dei papi defunti come Gehlen, Schelsky e Cari Schmitt, e quando ha intelligentemente contrastato quella dei papi vivi – da Lubbe a H. Maier, da Rohrmoser a Michael Sturmer? Quando ha cercato di ottenere il favore di «neutrali» come C. F. von Weiszacker, la contessa Dònhoff, il conte Christian Krockow o Alfred Grosser? Ha mai tentato, la sinistra, di passare dalle terze pagine dei giornali nazionali a quelle dei quotidiani regionali? Si è mai preoccupata dei modelli televisivi o della pubblicistica degli ingegneri? Si è mai occupata dei bollettini professionali degli artigiani o dell’associazione dei militari in congedo? Io temo che la sinistra tedesca stia cuocendo nel proprio brodo; temo che da un lato tenda ad adeguarsi e dall’altro ad essere esoterica. Temo che non abbia nemmeno il coraggio di avvicinarsi ai contingenti piú importanti dell’esercito nemico.
In queste condizioni è impossibile che una «vasta tendenza a sinistra come formazione moderna» si possa costruire. In aueste condizioni non nasce un «blocco storico» della sinistra, per lo meno non un blocco che sia in grado di essere egemone. Io non affermo che esso non può nascere, ma dico soltanto che fino adesso non siamo stati capaci di crearlo. Ciò dipende, fra l’altro, dal fatto che i nostri «intellettuali» hanno letto piú spesso Kautsky che non Gramsci. Ciò dipende daf «Kautsky che è in noi», dai confortevole tradizionalismo della sinistra tedesca, da una sensazione di sgomento di fronte alle dimensioni estranee al produttivismo e da un residuo di quella indistruttibile ma vana speranza che l’inesauribile cultura popolare ha riassunto nella formula: «L’ingiustizia non paga».
Il problema che emerge oggi costantemente e in modo sempre piú chiaro, è la articolazione della struttura degli interessi dei lavoratori dipendenti. E’ ben vero che l’addetto alla manutenzione è altrettanto legato allo stipendio di un direttore di elaborazione dati, di un macchinista, di una segretaria o di un addetto all’imballaggio, però il piú delle volte gli interessi concreti connessi ai loro posti di lavoro sono diversi. Questi interessi, talvolta contrastanti, possono manifestarsi tanto nell’introduzione di nuove tecniche, come nelle trattative sulle strutture salariali, nell’organizzazione delle imprese in unità di lavoro, come ancora nella definizione dei tempi di lavoro. E’ impossibile affrontare questa varietà di condizioni fra i lavoratori con il vecchio adagio: «Stiamo tutti nella stessa barca».
L’unico modo in cui i movimenti dei lavoratori possono misurarsi con questa sfida sempre piú marcata, è quello di elaborare un concetto di interesse piú complesso. I sindacati – così affermano correntemente i loro critici – rivendicavano (sfacciatamente) un «mandato politico». Però che cosa rimane loro quando gli interessi concreti posti di lavoro dei loro iscritti sono reciprocamente conflittuali? Non è giocoforza allora che essi pongano in primo piano «interessi» comuni a piú lungo termine e piú complessi come quelli relativi al disarmo, alla modernizzazione ecologica o alla parità della donna? E’ ben vero come si legge nella Sacra Famiglia che: «L’idea ha sempre fatto brutta figura nella misura in cui essa si differenziava dagli interessi». Però questo non esime il «movimento sociale» di oggi dal compito di costruire il «blocco storico» necessario attraverso un’attività politica cosciente, attraverso la «politica quale processo di produzione» – insomma, tramite un «lavoro di acutizzazione» che non sia predeterminato da un interesse economico fortemente percepibile e massicciamente evidente: predeterminato, in altri termini, da «interessi» così simili a «idee» da poter essere scambiati queste. Risulta chiaro allora perché Antonio Gramsci è, oggi, di così grande attualità?
Il «movimento sociale» di oggi, cioè la sinistray come preferisco dire, deve prendere atto del fatto che contrariamente a quanto pronosticato da Marx lo sviluppo capitalistico non ha affatto generato dal proprio seno le condizioni che conducono a una regolamentazione socialista della vita economica; come ha dimostrato Bernstein piú di 90 anni fa, la teoria dell’impoverimento ha rappresentato una sottovalutazione della capacità organizzativa della borghesia. Detto in termini molto espliciti: nelle zone industriali dell’Occidente, il capitalismo è in condizione di offrire a una cospiscua parte dei lavoratori quelle condizioni materiali di vita che neanche sindacati e partiti di sinistra riescono a superare e oltrepassare anche se ciò avviene al prezzo del declassamento, del disciplinamento e della pauperizzazione di una cospicua minoranza. Però, per i marxisti la domanda chiave è la seguente: come costruire un «blocco storico» che comprenda questa minoranza pauperizzata o minacciata dalla pauperizzazione, oltre che cospicui settori degli strati «privilegiati» ovvero economicamente soddisfatti?
Termino questa digressione (necessaria) relativa ad un nuovo concetto di interesse piú «complessamente» composito (che abbini forze materiali e ideologia), per tornare a occuparmi nuovamente della questione organizzativa, cioè all’esortazione preoccupata di Wieland Elfferding a favore di alleanze non gerarchiche. A questo proposito seguono cinque tesi formulate alla meglio e senza troppi riguardi. 1 Se la costruzione di un nuovo «blocco storico» presuppone un «punto di applicazione» complesso e composito, tale costruzione non può essere effettuata a partire da organizzazioni che si sviluppano attorno ad «un unico antagonismo». E’ difficile difatti immaginare che l’integrazione dei vari antagonismi possa, per così dire, avere luogo soltanto nella testa dei cittadini.
2 – Se un «blocco storico» – rigorosamente secondo Gramsci – non vuole essere unicamente un’«aggregazione meccanica», una costruzione elettorale casuale che si sfalda rapidamente, se esso presuppone «la costruzione storica a lungo termine di un nuovo sistema egemone» (Buci-Glucksmann), allora esso dovrà perforare la corazza estremamente «elastica» ma oltremodo resistente del blocco dominante: esso dovrà arrivare agli «intellettuali» fino ad esprimere degli «intellettuali organici». Esso deve quindi – per dirla nel linguaggio di oggi – raggiungere il massimo numero possibile di «orientatori di opinione» negli «apparati egemonici». Ciò significa che in questi apparati esso non deve scegliere soltanto coloro che sono simpatizzanti, ma che deve occuparsi di tutti coloro cui viene imposta l’«egemonia»: imprese, amministrazioni, scuole, università, media, ma anche esercito, organizzazioni del tempo libero, intreccio multiplo delle «associazioni» tedesche, organizzazioni culturali, professionali, ecc.
3 Il blocco dominante è organizzato in maniera molteplice e «universale»; non solo attraverso tre partiti politici (Cdu, Csu, Fdp) che sono difficilmente separabili l’uno dall’altro, bensì anche attraverso una rete nazionale di organizzazioni potenti, ricche e profondamente ramificate nella nostra società che in molti casi si presentano come «neutrali», pur essendo in realtà univocamente «partito». Per esempio, albi di categoria, associazioni di industriali, organizzazioni commerciali e artigianali, Rotary e Lions Clubs, ecc. La loro influenza che deriva da discorsi impostati sul lungo periodo può essere limitata soltanto da strutture organizzative capaci di produrre oltre a campagne a breve termine, anche discorsi validi sul lungo periodo.
4 E’ indubbio che il tipo di «partito» sviluppatosi nell’Europa Occidentale non è, da solo, in grado di costruire un «blocco storico». I partiti si trasformano in «cisterne» – di difficile manovra, capaci di muoversi solo lungo solchi profondamente scavati, lentamente e spesso goffamente. Quindi occorre che, accanto alle cisterne, vi siano anche imbarcazioni piccole e agili che sappiano navigare anche su rivoletti piú piccoli e raccogliere invocazioni anche dalle sponde che non giungono fino al ponte della nave cisterna. Per continuare con il paragone: l’equipaggio dell’imbarcazione non deve essere comandata dal ponte della nave cisterna e il divieto di fraternizzare tra equipaggio della cisterna e individualisti sulle imbarcazioni è privo di senso. Occorre che la Socialdemocrazia accetti anche psicologicamente l’organizzazione autonoma di gruppi parziali della società e che con essi elabori una vasta rete di istituzioni culturali, economiche e politico-sociali. Nella tarda fase della coalizione social-liberale la Spd ha evidentemente dimenticato questi semplici assiomi, cosa che ha contribuito fra l’altro a una pesante sconfitta. 5 – Chi crede che la costruzione di un «blocco storico» possa avvenire senza un «moderno principe» (Gramsci), come «centro organizzatore», si illude. Io sono senza meno a favore dello «spirito ecumenico» nella sinistra ed è evidente che «movimenti sociali», e men che mai sindacati unitari, non possono essere governati dalla direzione dell’Spd (della direzione dei Verdi non parlo neppure). Però, senza un «centro organizzatore», cioè senza un dialogo organizzato, senza coordinamento e conversione in azione parlamentare, un dibattito di questo genere, niente affatto facile, diverrebbe irrealizzabile.
L’Europa si trova in una fase di sgretolamento. Nella maggior parte delle istituzioni in cui si formano le opinioni di questa società, la destra detiene la maggioranza assoluta o per lo meno relativa, mentre gli organismi economici dirigenti si trovano praticamente tutti nelle mani della Destra. Io non nego che la crisi di sgretolamento sia un’opportunità per la Sinistra, però aggiungo che lo è soltanto nella misura in cui essa non sprecherà questa occasione come ha fatto negli anni 1968’73. Perciò sono allergico a tutte le proposte che non siano razionali e a tutti i consigli che provocano l’entusiasmo della minoranza interna, un misto di indignazione simulata e gioia occultata nell’avversario, ma nella massa degli elettori indifferenza e disprezzo. Purtroppo questi consigli e queste proposte inconsistènti sono molto piú frequenti di quanto non si pensi.
Però non si tratta solo della retorica bensì anche della sostanza della politica. Non riesco a rassegnarmi al fatto che Enrico Berlinguer debba rimanere l’unico dirigente politico della sinistra europea che sia stato disposto a trarre le conseguenze strategiche dalla sconfitta della sinistra cilena sotto Allende. Oggi, in Europa, la sinistra si trova in una situazione in cui un socialismo di «assalto frontale» è destinato al fallimento. Ma «assalto frontale» non significa soltanto «rivoluzione» nel senso dell’ottobre ’17 (assalto al Palazzo d’Inverno), bensì anche assalto frontale contro le classi economicamente dirigenti mediante gli strumenti classici della politica di nazionalizzazione e socializzazione. La tesi provocatoria che io sostengo è la seguente: nel corso dei prossimi decenni l’influenza della destra potrà essere limitata, non però eliminata, il famoso socialdemocratico austriaco Otto Bauer definiva questo «democrazia funzionale».
Con ciò, sono giunto all’ultimo concetto di Gramsci che desidero introdurre: quello di guerra di posizione. «Nelle siiuazioni» – ed è il caso della nostra – «in cui non vi è passaggio diretto dall’economico al politico, l’unica strategia possibile è quella della guerra di posizione». Oggi non esiste passaggio diretto tra l’economico e il politico.
Gramsci descrive dettagliatamente la «struttura resistente» della società che egli chiama «borghese». E segue una frase che ha meritato di diventare classica: «La sovrastruttura della società borghese è come il sistema delle trincee nella uerra moderna». Quest’uomo che a potuto svolgere un ruolo politico nel proprio paese solo per un periodo brevissimo, per scomparire poi dietro le mura delle carceri, era dotato di uno sguardo realistico superiore a quello della maggior parte dei dirigenti politici della sinistra di oggi.

Tratto da Peter Glotz, Kampagne in Deutschland, Politisches Tagebuch Hoffmann und Campe Hamburg, 1986.

*Peter Glotz (Eger, 1939 – Zà¼rich, 2005) Nel 1972-77 e nel 1983-96 è stato parlamentare per il Partito Socialdemocratico (SPD) nel Bundestag, nel 1977-81 senatore per le Scienze e la Ricerca a Berlino e nel 1981-87 segretario generale dell’SPD. Il cancelliere Schrà¶der lo ha designato quale rappresentante del governo tedesco tra i 105 membri della Convenzione Europea, per partecipare al progetto della nuova costituzione dell’UE.
[dati biografici tratti da Wikipedia e da Cooperazione]

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