Arte,  Pietro Germi

Alfredo Giannetti su Pietro Germi

Da Pietro Germi. Ritratto di un regista all’antica, a cura di Adriano Apra, Massimo Armenzoni, Patrizia Pistagnesi, Parma, Pratiche, 1989

Germi non ha mai fatto parte di gruppi, di movimenti, i suoi film non sono mai andati sotto nomi, «ismi». Se n’è sempre fregato. Era un uomo schivo, un uomo piuttosto curioso, strano. Non amava i critici e soprattutto non si faceva amare dai critici. Anche nelle sue valutazioni faceva degli errori clamorosi. Io, pur essendo molto legato a lui – professionalmente e anche affettivamente, amichevolmente – non mi faccio scrupolo di indicare quelli che secondo me sono stati i suoi difetti maggiori, soprattutto culturali, soprattutto di dispregio di certi accademismi. Questo, a volte, ti dà una libertà, però sei portato spesso a fare Terrore dell’autodidatta, che scopre l’acqua bollita.
Germi era un artigiano straordinario, non era un creativo, ma il piùstraordinario esecutore del mondo. Lui assimilava quello che gli si diceva, quello che scrivevi per lui, e lo faceva suo – ma non per modo di dire, né perché lui se ne impossessasse di diritto, di prepotenza, ma perché riusciva a farlo veramente suo. Io mi ricordo – e questo detto da uno sceneggiatore è molto, perché gli sceneggiatori si lamentano sempre che i loro film una volta realizzati sono piùbrutti – che i suoi film erano sempre piùbelli delle sceneggiature. E questo è un suo grande merito.

(Segue intervista)
Come ha conosciuto Germi?
Io scrivevo dei racconti, e tra questi racconti ce n’era uno che stavo ultimando, che si chiamava Il treno, da cui è nato Il ferroviere. Incontrai Germi, con il quale avevo avuto un rapido, fugacissimo rapporto di lavoro quando qualcuno gli commissionò un film sui fratelli Cervi. Allora non legammo molto. Andammo a Campegine, a Reggio Emilia, dove abitavano i superstiti della famiglia Cervi, e io feci un trattamento molto di fantasia, mi ricordo, basandomi sulla documentazione. Ma non mi piaceva fare un lavoro d’equipe, andare tutti insieme… C’era anche Peppino Mangione, che era stato sceneggiatore di Germi per altri film precedenti e suo amico, col quale io legai molto, perché era molto simpatico; ma con Germi non legavo perché lui era difficile, era un uomo che pareva sempre che ti studiasse, sospettoso, chiuso – io sono abbastanza estroverso, almeno per certe cose. E allora adottai un sistema: invece di andare con loro a raccogliere notizie sui fratelli Cervi, me ne andavo per i fatti miei, per le campagne, con i contadini, con le vedove. E su queste notizie io, per conto mio, senza nemmeno farli partecipi di questa mia cosa, scrissi un trattamento cinematografico che poi consegnai a Germi. Mi pagarono e me ne andai. E lui evidentemente fu molto impressionato da questa cosa che poi non si fece. Germi era anticomunista; Germi era un antifascista, sicuramente, ma con altrettanta sicurezza posso dire che era anticomunista. E io invece ero comunista – sono comunista, in un altro modo oggi – e forse anche per questo allora non legammo molto, pur legandoci in seguito l’un l’altro di stima e di grande affetto, devo dire. Ricordo una cosa famosa quando ci fu l’occupazione dell’Ungheria da parte dell’armata sovietica (io stavo scrivendo L’uomo di paglia per lui). Mi trovavo in un caffè di via Veneto, dove avevamo appuntamento alle otto di sera. (Perché così procedeva il nostro lavoro: io trovavo un tema che proponeva delle cose o lui mi proponeva delle cose; io le elaboravo, scrivevo – tra l’altro io scrivo a mano, non scrivo a macchina – per cui poi periodicamente, ogni cinque o diecigiorni, a seconda, ci si incontrava in un locale – perché lui era un vagabondo come me, non aveva mai una casa, allora andavamo nelle trattorie, nelle osteriole, nei bar – e io gli leggevo le cose scritte a mano, altrimenti lui non avrebbe potuto leggerle; e passavamo delle serate a commentare… cioè, lui ad ascoltare. Poi magari dopo due giorni mi telefonava e diceva: «Ah, sai quella cosa dell’altra sera, mi pare bene». Basta. Lui ascoltava, era un grande ascoltatore.) E mi ricordo che il giorno dell’occupazione dell’Ungheria mi aggredì. Io lo stavo aspettando al caffè Strega, in via Veneto; arrivò come un pazzo (era appena arrivata la notizia dell’invasione sovietica) e mi aggredì: «Hai visto che hanno fatto i tuoi amici russi?» Con tutta la gente… Perché poi quando si incazzava andava su di testa, era odioso, perché aveva la voce stridula, da isterico. E allora io, a mia volta, mi incazzai ferocemente perché poi mi disse: «Guarda, se non ci fosse che stiamo facendo un film insieme… Io devo dimenticare che mi trovo bene per il lavoro con te, perché altrimenti, guarda, manderei a monte tutto, perché con uno che sostiene ancora questa gente io non dovrei averci a che fare». E allora persi la testa. «Pazzo, isterico, vai al diavolo» e qualcosa di peggio, dissi, e me ne andai. E allora lui mi corse dietro (perché era fatto così, poi si sbolliva immediatamente e umilmente mi chiedeva scusa, era un intemperante). «Ma no. Ma dove vai? Ma scusa, io stavo parlando…» «Ma come, stavi parlando! Pareva che avessi invaso io l’Ungheria. Ma che? Sei matto?» E così ricevetti questa telefonata da Germi, dopo che era andato a monte questo suo progetto dei fratelli Cervi proprio perché lui – mi disse in seguito – ne aveva parlato con Saragat, essendo lui socialdemocratico, amico personale di Saragat. (Diceva che Saragat era un santo. Una volta ci portarono dentro. Avemmo una discussione estiva in piena notte, in piazza Quadrata verso l’una, lui continuava a dire che Saragat era un santo: «No, perché Saragat è un santo!», urlava di notte. E io gli dicevo: «Ma non urlare. Ma che santo, Saragat è uno stronzo, allora, già che ci siamo!» «E’ un santo!» «E’ uno stronzo!» «E’ un santo!» Insomma, ci fu una signora al secondo piano che disse: «Mettetevi d’accordo, se no chiamo la polizia». Dopo un po’ arrivarono le camionette che ci portarono in questura – poi ci rilasciarono – per schiamazzi.) E così mi telefonò, con mille reticenze: «Sono Germi». «Ah, ciao, come va?» «Senti, io sono in un momento in cui non riesco piùa far niente, non trovo una storia… Sono tre anni, quattro anni che non faccio un film». Stava proprio in condizioni – economiche anche – molto disastrate. Gli proponeva no di fare Il fornaretto di Venezia, e lui era disperato. E mi diceva: «Ma tu non hai una cosa? Io ho la sensazione che forse con te… Tu hai un carattere diffìcile ma io ho letto…» «Ma», dissi, «guarda, io sto scrivendo dei racconti; ce n’è uno che forse potrebbe essere un film, non lo so…» E gli detti appunto questo racconto, Il treno. Lui lo lesse, se ne innamorò, lo portò da Ponti, e Ponti decise di farlo. E si chiamò Il ferroviere. Cominciai a lavorare, a fare la sceneggiatura; e iniziò un sodalizio che è durato fino a L’immorale. Serafino lo lasciai a metà, dopo aver fatto un trattamento di duecento pagine. E litigai con lui. Questo, forse, è abbastanza interessante, credo.

Cosa accadde?
Lui in Serafino, non era piùsoltanto regista, era anche semiproduttore, così gli prese lo sfizio di fare i soldi, di fare il furbo, una volta tanto. Era una storia divertente, la storia di un pastore un po’ anarcoide. Però il film era ben diverso da quello che è venuto fuori, perché era, sì, pieno di cose facete, da commedia, ma era anche un film in cui si raccontava la vita di un pastore, la vita di un analfabeta, di un troglodita, una condizione sociale inaccettabile in questa èra. (Io andai a documentarmi nel Molise, nell’Abruzzo; riportai degli episodi incredibili di pastori che si erano uccisi per gelosia,perché uno aveva per amante una capra e l’altro del gregge vicino la voleva anche lui, si erano ammazzati come per una donna. Gente che si sparava sulle mani per non fare il servizio militare, perdendo quattro dita…) E invece lui lo ha trasformato, con la complicità di Benvenuti e De Bernardi, che subentrarono a me nella sceneggiatura. Io lo lasciai perché mi si offrì l’occasione in televisione di fare La famiglia benvenuti. Però glielo spiegai: «Sai, è un’occasione grossa». Lui capì, e disse: «E adesso per la sceneggiatura chi prendo?» E io gli suggerii Flaiano perché abruzzese, spiritoso, fine, mio amico. Lui era un po’ sospettoso perché considerava Flaiano un intellettuale, e lui aveva paura degli intellettuali, chi lo sa perché. E poi non è vero… Probabilmente era sospettoso perché non lo conosceva. Telefonai io a Flaiano, gli dissi: «Lo faresti?» «Ah ti ringrazio, sì, mi piacerebbe. Germi? Come no!» Ma non si sono presi. Dopo due o tre giorni incontrai Flaiano che mi disse: «Sai, non capisco quello che vuole. Non mi dice niente… Non capisco. Ma tu come fai a lavorare con lui?» «Devi essere prepotente». «Io non son capace». E allora poi prese Benvenuti e De Bernardi – che sono dei professionisti bravissimi, intendiamoci – e si lasciò prendere dalle battute con le parolacce, un po’ volgarucce. E prese Celenta-no, al quale io ero decisamente contrario. Mi ricordo che mi chiamò a vedere il film, in occasione di una visione a inviti. E io rimasi malissimo, e glielo dissi, perché non mi so tenere le cose: «E’ vergognoso. Se tu ti metti a fare dei film così, in un momento in cui il cinema sta andando a rotoli – perché la commedia all’italiana è diventata una cosa orrenda, barzellettistica, da caserma, con le parolacce – tu che passi per un ottocentista – e in questo momento è un titolo di merito per come stanno andando le cose – tutti si sentiranno autorizzati ad andarci dentro sempre di piú». E litigai, lo mandai al diavolo. Io continuai la mia strada. Poi lui fece Le castagne, mi pare, un brutto film,proprio brutto, e un giorno tornò a Canossa… Mi chiamò e mi disse: «Ma perché non facciamo una cosa…» E, mi ricordo, da una sua idea venne fuori L’immorale, che praticamente era costruito sui racconti che si facevano sulla vita privata di De Sica: che aveva due mogli, che faceva due Natali, uno in casa dell’amante, uno in casa della moglie, per non far soffrire nessuno. E così nacque l’idea de L’immorale-, prima si chiamava Il santo, addirittura. E quella è stata l’ultima esperienza che ho avuto con lui [n.d.r.: L’immorale è stato realizzato in realtà nel 1967, prima di Serafino]. Poi, quando fece la sceneggiatura di Amici miei, non gli fecero l’assicurazione (perché, come io sapevo, non era una scusa che fosse molto malato). E così gli negarono la regia. E allora mi chiese se prendevo io la regia. E io gli dissi: «Pietro, io lo leggo, ma sono sicuro che non mi piace. Perché so chi l’ha sceneggiato, so che è una cosa di lazzi, di scherzi, di vitelloni di provincia che fanno i giochetti. Guarda, sono sicuro che è un film che farà i miliardi, ma non è una cosa per me. Poi io non sono capace di affrontare la regia di una cosa che non è mia, che non è nata da me, non la capisco proprio». Ed è la verità. Lui disse: «Sì, sì, questo lo capisco, lo so. Ma di te mi fiderei, perché alle spalle di questo film c’è già una grossa spesa…» Lui aveva una società che stava in piedi da molto tempo… C’è un’altra cosa curiosa del carattere di Germi… Io avevo fatto Divorzio all’italiana, che fu il successo che fu. E Germi aveva una sorta di rancore, di livore… Lui non perdonava il fatto che se si parlava di Divorzio si diceva Mastroianni, non si diceva Germi. «Ah, com’è bello Divorzio! Mastroianni che fa…» [mima il famoso tic di Mastroianni nel film, quando storceva la bocca succhiandosi i denti]. Ma il cinema è così, il pubblico si attacca all’attore. Poi si sa che la regia ha – accidenti se l’ha – il suo merito, come pure la sceneggiatura. Allora volle dimostrare che era suo ilmerito e fece Sedotta e abbandonata con Saro Urzì, che era l’ultima ruota del carro, un attore inesistente, che soltanto con lui faceva delle cose. E andò molto bene; Saro addirittura prese il primo premio per l’attore a Cannes, per cui Germi ebbe la sua soddisfazione.

Era un’invenzione di Mastroianni quel tic?
Era il tic di Germi. Marcello, a questo proposito, mi ha raccontato una bella cosa cinque giorni fa. Marcello mi dice: «Ma tu come facevi a lavorare con Germi? Con uno così difficile? Ho fatto un film con lui: Divorzio. Ma, sai, una frase ci saremo detti… Lui non mi diceva niente, mi guardava… Io volevo legare… Lui, sai, stava in soggezione, non mi parlava, non mi diceva niente». In sceneggiatura, riportato nelle didascalie di sinistra – «primo piano di Fefé» – quando lui è assorto nei suoi pensieri e comincia a progettare il modo per uccidere la moglie, io avevo scritto (evidentemente ricordandomi di Germi, che portava la dentiera e aveva questo vizio orrendo, a tavola soprattutto): «così come in libertà e in solitudine molti di noi hanno l’abitudine di ficcarsi le dita nel naso o nelle orecchie, alcuni si succhiano i denti». Marcello l’aveva presa alla lettera; e a un certo punto [fa il verso di succhiarsi i denti] fa questa cosa. «Stop». Germi dice: «Va bene. Ne facciamo un’altra». E poi dice a Marcello: «Ti piace eh? Fare questa cosa?» (Poi Marcello mi ha detto: «Io non ho capito se era un rimprovero o meno».) E Marcello: «Perché? Non lo devo fare?» «No, no, fallo fallo. Tanto ho capito che ti diverti a prendermi per il culo come fa Alfredo». «Ma, veramente è scritto qui». «Sì, sì, va bene. Fallo, fallo». Lui, così come avrebbe voluto che le donne lo amassero per quello che era, avrebbe voluto che venissero riconosciuti i suoi meriti di regista, gli altri erano strumenti. Ed è per questo che avrebbe voluto fare l’attore, perché capivache soltanto l’attore è il film, per il pubblico. E il successo che lui voleva era questo.Lui soffriva di agorafobia, non attraversava una piazza. Il nostro giro era: Rosati e la libreria Rossetti (un posto dove venivano un pochino tutti, del cinema, della politica eccetera). Lui frequentava tutti, o meglio, non è che frequentava tutti, accettava… Ma, devo dire, io l’ho trainato molto, perché in principio era proprio bolso. Io gli ho fatto parecchio da filtro, lui mi era anche molto grato per questo. L’ho tenuto un po’ per mano, per queste cose, perché lui era capace di andare in un ristorante piccolissimo, vuoto, e di mettersi seduto a un tavolo d’angolo, guardando la parete, voltando le spalle alla sala. Fa paura uno che fa così. Le faccio un esempio: appuntamento da Rosati, in via Veneto. Si ricorda il vecchio Rosati? Il banco, e poi di là la sala con le sedie e i tavoli. Io una sera vado lì e mi fermo al banco un momentino – avevo appuntamento con lui, lo aspettavo da un momento all’altro; bevevamo un whisky, e poi andavamo a mangiare e parlavamo di lavoro. Lui tarda un po’ – cosa stranissima, perché uomo dell’ottocento, puntuale, con l’orologio da ferroviere. Qualcuno da lontano mi chiama – non mi ricordo chi – mi volto, vedo a un tavolo qualcuno: «Ciao, come stai?». Vado là col bicchiere in mano e mi seggo a parlare; e ogni tanto, mentre parlo con questo, tengo d’occhio il bar. A un certo punto mi volto e vedo entrare Germi, e gli faccio un cenno. Lui risponde e io penso che mi raggiunga – tra l’altro la persona con cui parlavo era una persona che lui conosceva, non era un estraneo – per cui continuo a parlare con questo, e a un certo punto mi rendo conto che Germi non arriva. Allora mi volto e lo vedo all’angolo del bar, dove lui si metteva sempre. Mah! Dico: «Scusa, sai, ho un appuntamento…» «Sì, sì». Io vado lì e gli dico: «Perché non sei venuto, c’era Pippo, hai visto?» E lui: «Ti pare che io vengo là al tavolo, attraversando tutta la sala con tutta lagente che sta seduta?» E quando uno è così, lei capisce che c’è qualche cosa che non va bene. Lui cammminava sempre rasente i muri. Ogni volta che doveva attraversare la strada io pensavo che avesse paura di andare sotto le automobili, invece no. Mentre lavorava tutto questo scompariva. Uno che è squassato dai tic nervosi… Nel momento in cui dici «Attenzione! Fermi! Motore, ciak», sul ciak si vede lui che si scarica tutto; poi, nel momento in cui dici «Azione», si sblocca e comincia a recitare. «Stop», lui si ferma e ricomincia coi tic. Questo è abbastanza emblematico per definire un personaggio. Lui, investito di una responsabilità, riusciva a vincere anche queste cose.

Nei titoli di testa dei film interpretati dallo stesso Germi lei figura come collaboratore artistico. In cosa consisteva questa collaborazione?
Lui faceva l’attore e aveva bisogno di qualcuno che lo dirigesse o che lo controllasse, o che lo guidasse. Lui impostava la sua regia e io non mettevo bocca in quello, ma quando lui era di scena – il che era sempre, perché era il protagonista – non si poteva fidare di un aiuto regista che gli dicesse «va bene». Perciò aveva bisogno di qualcuno che lo guidasse. E allora lì altra difficoltà, perché di fronte a tutta una troupe, con Germi regista e attore: lui che fa una scena, io che do lo stop, se non mi convince, e gli devo dire come deve fare… Capisce che è abbastanza imbarazzante, sia nei suoi confronti – d’altra parte lui me lo chiede – sia di fronte alla troupe che dice: «Ma che cazzo vuole questo qui? Dire a Germi quello che deve fare!» D’altronde facevo onestanente il mio lavoro. E così dovevo trovare un modo curioso per svolgere questo tipo di lavoro. Avevo scoperto – conoscendo Germi come le mie tasche – che con lui non potevo, non volevo dire «No, non va bene». Davo lo stop, lui mi guardava, e io facevo:«Mmmm, sì…» E allora lui diceva: «Ne facciamo un’altra?» «Ecco sì, è meglio, facciamone un’altra». Però dovevo dire perché un’altra, per correggerlo. Lui era dotato, come me del resto, di una grandissima memoria. Mentre lui si preparava a ripetere la scena, all’ultimo momento, prima di dare il via alla scena, gli andavo vicino e per analogia gli spiegavo delle cose, gli facevo capire quello che volevo, quello che era opportuno che lui facesse. Faccio un esempio: gli andavo vicino e dicevo «Senti, ti ricordi Fredric March in Morte di un commesso viaggiatore} Quando gli dicono che il figlio Biff è ladro, e lui sta andando via, e si ferma, e si volta lentamente, e c’è quel mezzo giro?…» «Ho capito». Tutto così, per cui il mio sforzo era sempre per analogia. Non potevo dire: «Mettici piùpalle. No. fallo così, guarda me». Era ridicolo. E lui si fidava ciecamente. Intanto, perché il copione era mio, per cui il personaggio l’avevo immaginato in un certo modo. Lui ne aveva condiviso i risvolti e l’essenza psicologica, perciò si fidava del mio gusto in queste cose. E gli piaceva il fatto che io gli dicessi le cose in un certo modo. La sua grande aspirazione era fare l’attore, e dopo Divorzio – con Divorzio stesso, in cui c’è stato Marcello – lui non ha piùpotuto fare l’attore, perché ebbe una paresi. Gli deformò un po’ la bocca e un occhio. Mentre girava Divorzio all’italiana lui ebbe questo incidente. Cristaldi mi chiamò e mi disse: «Vieni, si è chiuso in camera» – stavano a Ragusa – «e non vuole piùfarsi vedere dalla troupe così. Stanno tutti a bivaccare in albergo. Una troupe ferma da tre giorni… Vai giú, e con le dovute maniere proponi di finire il film tu, mancando due settimane». «Ma siete matti! Non conoscete Germi». «Ma come facciamo? Questo non si muove». E allora presi un aereo, andai lì, mi presentai nella hall, chiesi di Germi – mi aspettava – gli telefonarono, e gli dissi: «Fammi salire». Andai su – lui sapeva che io sapevo benissimo che tutti i suoi sogni erano sempre: «Il prossimo film, rifaccio l’attore» – bussai. «Avanti». Entrai… E lui stava a letto con gli occhiali da sole, e col lenzuolo fino agli occhiali. Vidi solo gli occhiali. «Ciao». «Ciao». A un certo punto si leva gli occhiali, tira giùil lenzuolo e dice: «Ecco, guarda». Aveva questa bocca piuttosto bruttina da vedere (poi dopo è migliorato, ha fatto delle applicazioni elettriche). E io gli dissi: «Be’, potrai fare sempre dei film di fantascienza». Lui cominciò a ridere e si sbloccò. E gli dissi: «Guarda, io sono venuto qua per questo: secondo loro io dovrei dirti “se vuoi io posso finire il film”, so che ti fideresti, forse, ma so anche che soffriresti. Per cui, ti metti la sciarpetta, ti metti gli occhiali da sole e finisci il film, non puoi mandare a monte tutto». «Sì, sì, certo hai ragione. Ma sai, è stato uno choc». E poi finì il film.

Più volte è stata sottolineata la capacità di Germi nella direzione degli attori. Come lavorava con gli attori?
Era molto esigente, molto preciso, e dava delle indicazioni precise. Non era vago, non era di quelli che prima di girare – come fanno spesso i registi che ti catechizzano – dicono: «Per cui questo personaggio significa questo…» Lui lasciava fare all’attore. Quando la cosa non andava bene, lui diceva: «Scusa, lo faccio io. Guarda me». Allora moltiplicava per mille le intenzioni, cioè indicava, recitando, quello che voleva venisse fuori, naturalmente esagerandone i caratteri. Coi bambini lui faceva un po’ l’istrione. E con Saro Urzì lui si divertiva molto perché Saro Urzì era creta. Mentre con Marcello non poteva farlo, si faceva scrupolo. Marcello, o un altro come lui, un attore professionista bravo, faceva le cose così come le aveva lette, e poi aspettava dei suggerimenti, delle correzioni, delle piccole cose. Il divertimento della sua regia era quando lui faceva l’attore, e da quello si capiva che la sua grande aspirazione era sempre stata quella di fare l’attore.

Provava le scene, prima di girarle?
No, non provava le scene. Provava tutti i movimenti di macchina con chiunque ci fosse. Diceva: «Mettiti là». Si metteva sul carrello: «Ecco arrivati qui, un segno a terra, e qui arriviamo a questa misura, e qui allora facciamo passare due. Chi sono quelli che passano?» Così impostava un ordito sul set. Poi arrivava l’attore, e diceva: «La prima battuta la dici qua, poi lui si volta di là eccetera». E si andava avanti così.

Ed era molto pignolo durante le riprese, ne faceva molte?
Ne faceva moltissime, moltissime. Lui, proprio per questo sistema di muovere molto la macchina, spesso ripeteva la scena non per l’attore, ma per i movimenti di macchina, per far coincidere una chiusura sul passaggio di una comparsa e fare uno zoom in avanti o un carrello, per sottolineare. Lui era un grandissimo tecnico, e la sua dote principale era essere, oltreché regista di movimento e di attori, un grande montatore. Era un montatore incredibile. Lui tagliava e poi andava a recuperare un fotogramma per terra, perché sentiva l’esigenza di un fotogramma. Ed era vero, aveva ragione lui. E io dicevo: «Ma porco giuda, per un fotogramma!» Lui: «No, no, cerchiamolo». Stavamo lì mezz’ora a cercare in moviola. «Lì avrei bisogno di una pausina in piú». «Ma una pausina di un fotogramma non esiste». Eppure poi si sente, è vero. Soprattutto lui la sentiva. In quel senso era veramente il piùbravo di tutti. Lui era un vero artigiano, della macchina da presa, della moviola, della pressa, di tutto.

Amava anche cimentarsi con generi diversi. E’ stato per questo che ha realizzato «Un maledetto imbroglio»?
Le devo dire la verità, che non si è mai detta. Un maledetto imbroglio non è nato né da Germi né da me, è nato da Peppino Amato, il produttore, che – siccome questo libro di Gadda, il Pasticciaccio aveva avuto, insolitamente in Italia, un successo editoriale importante (poche migliaia di copie, ma in Italia era già tanto) – propose a Germi di trame un film. (Aveva questo pregio, Peppino Amato: era un uomo ignorante, ma con un senso pratico sbalorditivo, un istinto…) Germi ne lesse metà e poi gli disse: «Senti, ma chi è l’assassino? Io non sono riuscito a capire, sono arrivato a metà. Pieno di parole complicate…» Non l’ha mai letto. Ma la cosa abbastanza curiosa è che per il Pasticciaccio noi abbiamo avuto due Nastri d’Argento, di cui uno per il soggetto originale. Cosa incredibile, ma giusta. E ricordo che Gadda (un uomo timidissimo e simpaticissimo, straordinario) aveva una gran soggezione di Germi, e Germi aveva una gran soggezione di lui. Per cui, mi ricordo, Gadda veniva, vedeva delle scene, e a un certo punto diceva: «Senta Giannetti, che nome avete dato a quel personaggio?» Adesso non mi ricordo che nome era. E lui: «Ah, non si potrebbe cambiare, non so, in Carpedoni?» Lui aveva questa cosa di fare sempre delle associazioni con gli animali. «Perché sembra una carpa. Carpedoni…» E io: «Sì, sì, dopo glielo dico a Germi. Sì, sì, in doppiaggio si può cambiare». Dopo andavo da Germi, alla sera: «Lo sai che ha detto Gadda?» «Cosa ha detto?» «Se potevamo cambiare il nome del personaggio in Carpedoni». «Perché?» «Perché dice che assomiglia a una carpa». «Andassero a fare in culo questi intellettuali cretini!» Germi quando lo vedeva scappava: «Ecco, eccolo là, mandalo via, mandalo via». «Come, lo mando via! E’ una persona rispettabile, un’autorità, un filologo». Era una persona così garbata, un uomo delizioso.

Come mai avete cambiato l’epoca in cui è ambientata la vicenda nel romanzo?
Per comodità. Perché altrimenti avremmo dovuto fare tutto d’epoca. Sa, ci sono delle esigenze in cinema. Un film con il sessanta, settanta per cento delle scene in esterni… Devi cambiare Roma. Le macchine d’epoca, i costumi, e i moti, anche, dei personaggi sono diversi. C’è il fascismo… Invece la cosa che io capii subito che poteva essere importante dal punto di vista dello spettacolo, era la possibilità di fare un film italiano in cui la polizia non era «Documen-da?», e bastonate, e la celere. Sono degli uomini, con la loro vita, con i loro caratteri. Una volta partito con la sceneggiatura, ho dimenticato il romanzo. Non me ne son fatto un problema. Perché, sa, il romanzo non è bello mica per il fatto, il fatto è un pretesto. E’ delizioso per altri motivi, proprio filologici.

Venendo a «Il ferroviere», ho letto un articolo su «Cinema nuovo» in cui si parlava di Spencer Tracy o Broderick Crawford come possibili interpreti del film. Come arrivò Germi a interpretare la parte del protagonista?
Queste erano le idee peregrine di Ponti, che voleva aiutare Germi commissionandogli un film, ma in realtà non voleva farlo perché non ci credeva. Allora cercava di mescolare le carte. Gli aveva dato un po’ di soldi – un po’ di soldi anche a me, per la sceneggiatura – e temporeggiava dicendo: «Adesso interpelliamo Spencer Tracy». Sapendo benissimo che questi non sarebbero mai venuti a fare un film di costume italiano, così particolare e preciso. Allo stesso tempo, capisce che non c’entrava niente fare Il ferroviere italiano, a Roma, con Spencer Tracy. C’è da dire, per altro, che in Italia non c’erano attori giusti per questa cosa. E allora io – incautamente, o intenzionalmente forse,adesso non ricordo bene – avendo capito, senza che lui me l’avesse mai detto, che Germi aspirava a fare l’attore, un giorno dissi: «Ma perché non lo fai tu? Ci vorrebbe un tipo come te, coi capelli tagliati corti, bianchi, vicino alla pensione». E lui diventò rosso come un peperone, e allora capii che non aspettava altro. E lui cominciò a dire: «Ma tu credi che io… No, no, mai fatto. L’ho fatto con Soldati, ma qui è il protagonista». Però mi guardava… E io gli proposi di fare un provino. Lo portai io da un barbiere. Ed è per questo che poi lui mi voleva sul set come direttore artistico; perché aveva capito, istintivamente, che in seguito avrei fatto il regista. Gli feci tagliare i capelli, glieli feci tingere in un certo modo, gli dissi di ingrassare. E lui cominciò a mangiare e a bere come un pazzo, per acquistare peso. E poi lo dicemmo a Ponti (prima glielo dissi io). Ponti si mise a ridere: «Ma cosa vuoi, Germi… Coi tic che ha!» «Ma guarda che girando poi non…» E infatti lui sul ciak si scaricava e per tutta la scena dimenticava tutti i suoi tic, poi, allo stop, ricominciava daccapo. E allora con Divo Cavicchioli, il nostro fotografo, feci un servizio fotografico su Germi, dirigendolo proprio; cioè girandolo di spalle, lo chiamavo di scatto: «Voltati, incazzati». E poi sciorinai le fotografie sul tavolo di Ponti, alla Vasca Navale, dove aveva gli uffici. E disse: «Cristo, che bel tipo!» E così è nato il Germi attore.

Oltre al progetto sui sette fratelli Cervi, ce ne furono altri che lei e Germi preparaste insieme, senza riuscire a realizzarli?
Ce ne fu uno, dopo L’uomo di paglia – mi ricordo anche il titolo – che gli proposi io, il titolo era: La bandiera. E lui se ne innamorò. Era, in due parole, la storia di un parlamentare di provincia, un Don Chisciotte, che parte dal suo paese per venire in parlamento, per fare una dimostrazione di non ricordo che cosa, e diventa un grosso personaggio perché veniva dal suo paese a Roma in bicicletta. E finiva col lasciarsi corrompere, ma non a grandissimo livello; diventava una nullità sporcata da una piccola corruzione. Per cui falliva miseramente – si sentiva lui un fallito, non veniva sputtanato. Ed era bello come progetto, ma non so perché non si fece. Forse perché era un film impopolare, dato il momento, proprio politicamente. Sotto c’era una critica del parlamento, una critica del malcostume italiano.

Nel libro curato da Fausto Montesanti su «L’uomo di paglia», Germi, a un certo punto, diceva che avrebbe voluto fare una sorta di «Breve incontro» nel mondo di «Ladri di biciclette»…
Era una considerazione che avevamo fatto – sbagliata – ma che sicuramente era da non dire. E’ una fesseria secondo me. Ha una ben altra realtà Ladri di biciclette, e così lo stesso Breve incontro. Perché l’analogia fra queste cose esisteva per un fatto puramente meccanico ed esteriore. Perché Ladri di biciclette è una storia, diciamo, operaia, di un mondo proletario. E qui c’è l’operaio. Mentre invece in Breve incontro c’è un mondo piccolo borghese, che è quello dell’amante, della moglie, del triangolo, dell’adulterio, cosa che non s’era mai fatta, vista in un mondo operaio. E secondo me il merito di questo film, L’uomo di paglia, se ne ha uno, è proprio questo: di aver visto l’adulterio in un ambiente in cui non si era mai visto. Come se gli operai non potessero avere un amante… Che è una scemenza. In questo senso era una novità. Io, anche in quell’occasione, ebbi modo di litigare con Germi. Perché nel mio copione il film finiva con la moglie che non sapeva niente. Il film finiva esattamente nel momento in cui lui tornava a casa, dopo la morte di lei, e la moglie alle sue spalle glidiceva: «E’ morta una poverina. Hanno fatto una colletta in tutto il caseggiato, io ho dato duecento lire, è poco?» Lui non rispondeva, e c’era il suo primo piano alla finestra con un fondu proprio di chiusura, preciso, mentre lui guardava fuori questo funerale. E invece lui a quel punto disse: «No, è troppo…» Allora inventò lui. Insomma, io ho scritto il copione in un mese, e siamo stati due mesi a fare l’ultima parte, perché lui voleva che la moglie andasse in chiesa, e lui in chiesa con la moglie, e che alla moglie, nel momento in cui sta per andare a fare la comunione, lui, tormentato, dicesse: «Ti ricordi quella ragazza? Si è uccisa per me». E allora la moglie non aveva il coraggio di fare la comunione perché sentiva che non poteva perdonarlo. Cioè, diventava tutta una cosa cattolica che mi faceva disperare. E poi la notte di Capodanno: lui che non si rassegna, poi la moglie torna, si abbracciano… E poi lui riuscì a metterci lo speaker finale che diceva, non so: «Una cosa che ci porteremo sempre dietro. Ogni volta che ci guarderemo, il ricordo di questa tragedia…» Col senso che c’era una riconciliazione formale, ma le cose non sarebbero piùstate come prima. E invece era bello che subisse lui il tormento di questa cosa. La moglie ignara dietro… Era molto piùgiusto che si prendesse lui tutta la responsabilità materiale e morale di questo fatto. E mi ricordo ancora che il produttore era dalla mia, ma lui volle questa cosa. L’abbiamo girata, e allora si fece una prima di assaggio a Parma. E ci fu un critico giovane – non ricordo il nome – che mi disse: «Vai a vedere le reazioni in sala». Io andai in questo cinema, e mi ricordo la gente perfetta, un gran silenzio, e poi, storia della comunione, sentii due o tre «Eeeeh…» Ma Germi, niente: «Forse là, ma in città…» Ma sa che lui non voleva che Divorzio all’italiana si chiamasse così? Io fino all’ultimo ho lottato, perché lo voleva chiamare «Capriccio all’italiana». «Ma come, “Capriccio”! Un film così, che lotta contro una cosa sacrosanta, la legge che assolve gli uxoricidi per motivi di onore; questa cosa iniqua che è, diciamo, l’unico modo di divorziare in Italia, un paese in cui non c’è il Divorzio». Niente. Poi, mi ricordo, sempre da Cristaldi, presi un foglio dal suo tavolo, ci disegnai una pistola a tamburo un po’ ottocentesca, col fumetto dello sparo, e dentro scrissi: «Divorzio all’italiana». E su quella fecero uno dei manifesti. Divorzio all’italiana nasce da una piccola idea di Germi che un giorno mi chiama e dice: «Senti, io vorrei fare un film che è la storia di un tradimento, di un uomo che uccide una donna, la moglie che lo ha tradito, amandola; e che però poi, siccome c’è il delitto d’onore (in un paese del sud un uomo che uccide una fedifraga è applaudito), lui prende due anni appena, dopo aver ammazzato questa poveretta che aveva avuto il torto di tradirlo. E quando torna in paese tutti lo salutano come un eroe. Finisce che lui torna nella sua stanza, si butta sul letto matrimoniale e piange». Io sento questa storia e dico: «Mah! Sì, c’è il delitto d’onore, certo, ma il resto… Il marchese di Roccaverdina, Gelosia, un film di vent’anni fa… Ma che c’entra?» «Ma come? No». Poi lui le difendeva le sue idee… E io rimasi un po’ male. «Boh, fa’ un po’ come ti pare. Fammici pensare perché io non mi sento di affrontare una cosa così. Ma perché? Facciamo, non lo so, un’altra cosa, o questa in un altro modo, ma non questo. A parte il fatto che quando si parla di corna c’è sempre sotto una satira, a meno che non fai un drammone ottocentesco, il cornuto o la becca sono sempre un po’ ridicoli. Allora affondiamo il coltello in una cosa così, di adulterio, arrivando anche al delitto, ma con un guizzo di follia, di spirito». «Ma no. Dove c’è un ammazzamento… la follia! Lascialo fare agli inglesi questo». Lasciamo perdere. Lui viene chiamato da Bolognini per fare La viaccia, va a Firenze a fare questo film. Intanto a me succede una tragedia in famiglia, mia sorella ha un incidente brutto, perde una gamba, una cosa tremenda. Iopasso quindici giorni in clinica, tutte le notti. Lei è in fin di vita, poi si salva. Ed era gennaio, febbraio, non so, comunque inverno. Andai a Capri – dove io vado spesso, c’è un mio amico che ha un alberghetto – e mi misi a lavorare, a scrivere qualche cosa. Vedo questo progetto per Germi, se posso trovare qualcosa… Da questo momento molto triste mi scatta una cosa di pazzia, rivolto Divorzio all’italiana e dico: «E se fosse la storia di un uomo che si vuole liberare di una rompicazzo di moglie, avendo lui il sogno di sposare una bella giovane? Avvalendosi del fatto che c’è il delitto d’onore, per il quale si danno due anni a un uomo che ammazza la moglie fedifraga? Ma la moglie, ahimé, è anche onesta, oltre che essere una rompicoglioni. Allora che cosa fa? Lo inventa lui il delitto d’onore, fa un marchingegno…» E lo scrivo. Scrivo un trattamento di centocinquanta pagine a piena pagina, un libro. Lo scrivo in pochi giorni, in due settimane. Fierissimo di questa cosa, esaltato da questa cosa, vengo a Roma e lo faccio leggere a Cristaldi. Cristaldi lo legge e dice: «Sì, è divertente, ma è una pazzia. Un film così non si può fare in Italia. Intanto, c’è l’istigazione al delitto… E’ divertente ma… Fanne un libro. Mettilo a posto e pubblicalo, perché è molto divertente». «Ma guarda che è un film strepitoso». «No, no, è molto bello. Ma tu sei sconvolto adesso per reazione a uno stato d’animo…» Io telefono a Germi e dico: «Senti, io ho scritto una cosa che somiglia vagamente a… ma è un’altra cosa». «Vieni qua». Io vado a Firenze, stiamo insieme il giorno, poi la sera gli do la cosa e lui dice: «Adesso vado a letto e la leggo». Al mattino viene all’Excelsior, dove io stavo, arriva con il trattamento sottobraccio e dice: «Alfredo, è molto divertente, lo si legge d’un fiato, ma non penserai di fare un film così? In Italia non si può». Io non mi davo pace. Arrivo a Roma e incontro Notarianni. E mi dice: «Ma non dovevi fare una cosa con Franco?» «Sì, ma…» Glielo do da leggere. Lui lo trova strepitoso: «Ma cazzo, si deve fare!» Facciamo opera di persuasione su Cristaldi che chiama Germi – aveva finito il film – e lui si lascia convincere (ma preso per il collo, proprio non gli andava, non capiva bene). Comincia a convincersi e dice: «Ci vuole un attore americano». «Come, un attore americano! Perché un attore americano?» Non poteva farlo lui evidentemente, e questo era uno dei motivi per cui… Invece quell’altra storia avrebbe potuto farla, la sua: l’uomo passionale che poi piange perché la moglie l’ha ammazzata lui. In grottesco lui non aveva possibilità. E andava di moda quell’attore americano, Ernie Kovacs. Girava un film a Bolzano, un film americano. Gli venne in mente Ernie Kovacs, che somiglia vagamente a Marcello: coi capelli ricci
(come aveva Marcello in quel periodo), coi baffi, faccia un po’ da italiano. Allora prende il copione e va da Kovacs. Torna e dice: «Kovacs l’ha letto. E’ un uomo simpaticissimo, un uomo strordina-rio. Ha detto che per fare questo film» – ed era un attore molto di moda in quel momento – «a lui basta che gli paghiate la diaria perché non vuole una lira, perché lo trova un film eccezionale; e poi ha detto che lavorare con me per lui…» Gli attori son tutti così. Io invece avevo avuto, su suggerimento di Notarianni, l’indicazione Mastroianni, che conoscevo. «Guarda che Marcello tu non lo conosci bene, non è il buon ragazzo italiano, lui può fare… Anzi, aspirerebbe…» Io resto un po’ così e lo dico a Germi. Germi dice: «No, per carità, Mastroianni… Fa il tassinaro romano e basta». «Va bene». Succede un fatto di cronaca: il delitto Tandoi a Palermo. L’uccisione di un marchese, un principe siciliano, un delitto d’onore, consumato nell’ambiente dell’aristocrazia palermitana. Esce su «Il Messaggero» la fotografia dell’assassino. Io che faccio pupazzi – mi diletto a far caricature, cose del genere – guardo questo pupazzo, una grossa fotografia, gli faccio i capelli un po’ alla Mastroianni, gli faccio i baffi rinforzati, gli faccio gli occhi che ha – un po’ da cane – Marcello, con il sopracciglio un po’ così… Lo porto a Notarianni e dico: «Chi è?» Lui lo guarda e dice: «Uh, sembra Marcello». Io dico: «Senti, facciamo una cosa: chiamiamo un bravo truccatore e trucchiamolo così». Ci chiudiamo alla Vides e De Rossi, truccatore esimio, fa un’edizione di Marcello così truccato, coi baffi, col bocchino, coi capelli eccetera; in un’edizione tutto spettinato, in un’altra tutto imbrillantinato, con la basetta (proprio com’era nel film). Facciamo degli ingrandimenti e scegliamo le tre o quattro migliori. Io me le prendo e le metto nel copione, in un copione che mi portavo dietro perché dovevo incontrare Germi. Io porto il mio copione e lo poggio sul tavolo, facendo in modo che escano fuori le fotografie. Lui guarda e dice: «Cos’è?» Le vede meglio e dice: «Eeeh! La Madonna! E’ lui, è Fefé, è stupendo, chi è questo?» «E’ Mastroianni». «Non è vero». «Come, non è vero! E’ lui». E così ha fatto il film. Vede che uomo curioso? Gliene racconto un’altra, sintomatica di questo carattere. Si ricorda Un maledetto imbroglio} Si ricorda il brigadiere? Quello che seguiva sempre il commissario insieme a Saro Urzì? Oreste, si chiamava. Lo faceva Silla Bettini. Silla Bettini non aveva mai fatto l’atto-re, è un mio ex compagno di scuola che io, mentre progettavamo Un maledetto imbroglio, incontro in un bar. Lo riconosco, ci abbracciamo, «Che fai?» Lui aveva un negozio di scarpe, figurati! Però è uno appassionato di cinema, un ragazzo preparato, simpatico, un romano spiritoso. Io avevo appuntamento con Germi: «E vieni con me… C’è Germi». «Chi? Germi il regista? Mi piacerebbe conoscerlo». «Vieni, ti ci porto». Ci incontrammo con Germi: «Piacere». «E’ un mio compagno di scuola». Silla è un estroverso molto simpatico, ha grande facilità di battuta. Non si impaurisce, non gli fa soggezione Germi. Alla fine della serata Germi dice: «E’ simpatico questo tuo amico, molto simpatico. Ma tu non lo frequenti?» «Ma no, l’avevo perso di vista». Da allora io comincio a vedermi con Silla, e spesso la sera andiamo con Germi, e si parla di cinema, di qualunque cosa. A un certo momento io dico: «Sei molto simpatico a Germi. Ti divertirebbe fare l’attore?» «Io? Ma per carità! Non son capace». «Ti garantisco, tu sei capace Perché tu non ti blocchi, la tua spontaneità viene fuori benissimo. Guarda, io sto scrivendo una sceneggiatura, c’è un personaggio, e io lo scrivo su misura per te». «Se ti va. ma sei matto». «Io prendo te a modello, con i tuoi modi di fare». E lui comincia a innamorarsi della cosa. Io non dico niente a Germi, lo scrivo, e man mano che scrivo, lui mi dice: «Me lo fai leggere?» E io, prima ancora che Germi lo leggesse, i vari pezzi di sceneggiatura li facevo leggere a Silla, che amava questa cosa non tanto perché gli interessava l’ipotesi, il sogno di fare l’attore, ma perché era uno che si interessava di cinema, e poi era molto affettuoso. Quando fu finita la sceneggiatura, Silla la conosceva meglio di Germi, nel senso che l’aveva letta prima, l’aveva masticata, la sapeva a memoria. Cominciamo la preparazione del film e Germi ha l’idea, secondo me clamorosa, di chiamare Claudio Gora per fare il marito. Io gli suggerisco Franco Fabrizi, e poi c’era la solita Cardinale. Prendemmo Nino Castelnuovo, che faceva il mimo a Milano con una compagnia di mimi, perché avevamo bisogno di un attore che fosse attore, che fosse gradevole, giusto per il personaggio, ma che non fosse un attore noto. Perché, dopo l’assassinio, lui veniva subito alla ribalta come presunto assassino, ma veniva immediatamente scagionato e non lo vedevamo piú; e poi all’ultimo compariva di nuovo. Se è un attore importante, il pubblico lo capisce che questo personaggio dovrà tornare fuori, perché un attore noto non può fare una piccola partecipazione e poi sparire. A un certo momento io dico: «E Oreste?» «Vediamo, ci sto pensando, adesso cerchiamo quelli piùimportanti». Arriviamo all’inizio del film, alla vigilia quasi: «Ma Oreste?» Lui dice: «So che tu ti stupirai, ma io ho una grande idea, sono sicuro di nonsbagliarmi. Quel tuo amico, Silla, io sono sicuro che è perfetto, che lo può fare bene». E allora io non potevo dire con entusiasmo: «Ah sì, certo». «Ma, non lo so. Sì…» Si è incazzato subito: «Io ti dico, sono pronto… Guarda, gli facciamo un provino domani. Chiediglielo». «E va be’, gli telefono davanti a te». Dico: «Senti Silla, sto qui con Germi, Germi ha avuto un’idea…» Lui dall’altra parte diceva: «Ma che devo dire io?» «Allora, verresti a fare un provino?» E andammo alla Cineriz. Germi dice: «Guarda, non gli faccio nemmeno un provino. Silla, ti interesserebbe? Io dico che lo puoi fare benissimo. Prendi questo copione, aprilo, dove leggi il nome Oreste, leggimi la battuta». Lui apre a caso, trova Oreste, gli dà un’occhiata, e capisce in che contesto è quella battuta perché sa tutto il film, per cui, siccome era una battuta che conteneva un’allusione a un certo fatto, la legge bene. E Germi dice: «Hai visto? Ha capito tutto, perfetto. Lo fai tu». E Silla è diventato attore.

Come accolse Germi la notizia dell’Oscar alla sceneggiatura per «Divorzio all’italiana»?
Avemmo la nomination io, De Concini, ovviamente Germi (anche per la regia) e Marcello per l’interpretazione. Poi l’hanno dato alla sceneggiatura. Io non andai in America, né De Concini (in quel periodo stava in Russia). Castaidi disse: «Andiamo tutti». Io dissi: «Guarda, a me proprio non me ne frega niente di andare tre giorni là per veder poi vincere un altro. Io non parlo inglese, se non parlo la lingua del paese in cui vado, non mi diverto, mi sento un idiota. E poi non lo daranno mai a noi». E non ci pensai piú. Poi, di notte, mi svegliarono quelli del «Messaggero», che avevano sentito la notizia che avevamo vinto l’Oscar. Allora Cristaldi mi telefonò dall’America e mi disse: «Mettiti d’accordo con Fabio Rinaudo» – che faceva l’ufficio stampa – «trova un Oscar, una statuetta» – io miricordo che andai da Emy De Sica, che aveva quello del padre – «così Fabio Rinaudo organizza un po’ di giornalisti e di fotografi, ci vieni a prendere all’aereo, e Germi ti dà l’Oscar». Io sono andato da Emy che mi ha dato l’Oscar di Ladri di biciclette, poi ci siamo messi d’accordo, a Fiumicino, con l’Alitalia, con una hostess a terra che in una borsa ha messo l’Oscar. Quando è arrivato l’aereo, io con il permesso sono andato sotto la scaletta; lei è salita prima, ha tirato fuori l’Oscar, l’ha dato a Germi, Germi è sceso, mi ha dato l’Oscar e mi ha abbracciato. E io per tutta la passeggiata dalla pista all’aeroporto vero e proprio – ho le fotografie – ho camminato con l’Oscar, coi fotografi, coprendo la scritta per paura che qualcuno con un tele mi inquadrasse Ladri di biciclette. E mi ricordo che Germi mi abbracciò, si adattò a tutte quelle che erano le formalità, coi fotografi; e mentre eravamo abbracciati, con l’Oscar in mezzo, io gli dissi: «Be’, sei contento, no? Una bella soddisfazione». «Mah, sì. Ma sai, quello che conta è per la regia». E io gli risposi: «Per te. Per me conta piùquesto. Per te lo capisco, per me conta piùquesto». Lui aveva queste cose così.

Ha mai avuto occasione di parlare con Germi degli altri registi italiani contemporanei? Ho letto dei giudizi di Germi su Antonioni che erano molto duri.
Ma era una sua difesa, perché lui in realtà era molto generoso. Lui per esempio non sopportava certe cose sciocche, aveva delle prese di posizione da moralista, poi in realtà era assai piùgeneroso di quanto sembrasse dai giudizi che dava sulle persone. Lui, per esempio, non sopportava Pasolini, non sopportava Visconti. Poi quando li ha conosciuti, quando ha avuto a che fare con loro veramente, ne ha riconosciuto il valore, l’abilità, la professionalità.L’omosessualità, queste cose, gli facevano orrore. E questo era uno dei motivi per cui non andavamo d’accordo. Certo che non aveva molti amici. Perché si esponeva… Lui diceva, per paradosso, che l’unica cosa importante di Roma, bella architettonicamente, era il Palazzo di Giustizia – che è una mostruosità – o l’Altare della Patria. Era ottocentesco. Quando andammo a Cannes lui disse: «Ma tu ti metti lo smoking?» «Credo che sia obbligatorio, me lo dovrò fare. Perché? Tu non ce l’hai?» «Io?» «Te lo dovrai fare». «Mai». «Te lo devi fare». Arrivammo a parlare con la giuria, con il presidente che disse quello che era logico: «Germi, se tutti portano lo smoking e tu vieni senza smoking, sei tu che passi per uno che vuole fare l’originale». Allora si convinse che il suo conformismo doveva essere per lo smoking, perché tutti erano in smoking. Lui non era mai andato da un sarto, probabilmente; io lo portai dal mio sarto, e voleva lo smoking con il risvolto ai calzoni. E quello gli dice: «Ma non si porta». E lui dice: «Ma i froci portano i calzoni senza risvolto!» Io mi vergognavo. Faceva queste asserzioni, queste stronzate. Era un uomo così. La sua affermazione di virilità, di monumento all’uomo, era col sigaro e col vino. Lui bagnava le labbra col vino, beveva un sorso, ma aveva sempre il mezzo litro davanti. Un sigaro gli durava tutta la giornata, lo accendeva e gli restava in bocca. Dov’è questo gran fumatore, questo gran bevitore? Non è vero niente. Erano tutte fregnacce, tutti attributi che lui si inventava, apparenti. Forse dentro c’era qualche cosa freudiana, qualcosa doveva esserci. I suoi rapporti con le donne, per esempio: lui era un romantico, tenerissimo, un ingenuo, un bambino. Lui si innamorava e lo prendevano per il culo, perché, sa, le attrici… S’innamorava sempre dell’attrice del suo film, ma in un modo bovino – ti faceva tenerezza – proprio come un liceale. Prese una cotta per la Bettoja, di quelle proprio imbarazzanti… Poi invece queste o lo facevano un po’ per interesse d’attrice o non civolevano stare, e lui soffriva come un cane. Mastroianni giorni fa mi ha detto: «Sai Fellini come lo chiamava Germi? “Il grande falegname”». Lei pensi a Ger-mi, fisicamente, il carattere e tutto. Se lei fosse un regista e dovesse fare un film da Zola – un «Gervaise» – non lo vedrebbe come un artigiano con la bottega, accigliato, che lavora il legno, con l’odore di spirito e di lucidatore di mobili, che poi magari prende sotto la sua ala un allievo, un ragazzino, e lo tira su con le idee socialiste? Cioè, a parte questo tipo di storie, lui è «un grande falegname», rosso di capelli, la carnagione… Mi pare proprio una definizione perfetta.

Mi può dire qualcosa del rapporto fra Germi e la critica?
La critica? Be’, sa, lì sono debolezze. Quando parlavano bene di lui, quello era bravo, quando parlavano male, quello era uno stronzo. Ed era livoroso, cattivo, col desiderio di affrontare la gente. Poi non lo faceva. Ma lui l’apprezzamento che avrebbe desiderato dai critici era che parlassero di lui come attore. Mi ricordo, alla premiazione del Nastro d’Argento che lui prese per la regia de L’uomo di paglia… Grandi applausi; lui si alza, poi mi guarda e dice: «Lo volevo come attore…» Dico una cosa apparentemente sgradevole: lui aveva la vanità di una scimmia. Lui avrebbe voluto essere amato dalle donne come uomo, e poi si accorgeva che se lo corrispondevano era perché lui era il regista, e questo lo umiliava. Era patetico in questo. Era un uomo che soffriva molto. I primi giorni di lavorazione de L’uomo di paglia lui si convinse che andava bene la Bettoja perché se ne innamorò subito, questa è la verità. Ma la Bettoja aveva pressapoco la mia età, anzi era piùgiovane di me, ma con me aveva una certa confidenza, anche perché lui era il regista, e per lei quello era il primo film. Per cui, durante la lavorazione, spesso si rivolgeva a me, in pausa:«Alfredo, mangiamo insieme?» Una volta io e Germi tornavamo in auto da Castelgandolfo, dove giravamo le prime sequenze. Germi guidava in silenzio – erano tre o quattro giorni che non ci vedevamo – a un certo punto blocca la macchina in piena notte. «Che c’è?» «Senti Alfredo, qualunque sia la risposta, dimmi la verità, perché io devo sapere. Tu hai a che fare con Franca? C’è qualcosa tra te e Franca?» «No». «Sei sicuro, Alfredo?» «Se ti dico di no!» Ma era pallido, era già innamorato come uno scemo di quella. E lei poi mi diceva: «Come faccio? Mi vergogno, mi invita… Vieni anche tu». «Eh no, cocca mia. Non posso».

Un ricordo particolare di Germi?
Umanamente, quando abbiamo incominciato a lavorare al Ferroviere, ricordo una cosa meravigliosa. Eravamo tutti e due senza una lira, e io scrivevo – scrivo tuttora – a mano, per cui comperavo dei quadernucci, di quelli proprio delle scuole elementari. Allora, lui mi veniva a prendere (aveva un vecchio millecento «musetto» che ogni tanto si fermava, non aveva i soldi per la benzina), e andavamo in un’osteriola in piazza Caprera, dietro viale Regina Margherita, dove abbiamo girato poi l’ambiente del film, vicino alle case dei ferrovieri. Avevamo scovato un’osteriola che era frequentata da pensionati delle ferrovie. Andiamo in questa osteria e ci mettiamo in un angolino. Chiediamo mezzo litro di vino… E c’erano – alle quattro, cinque del pomeriggio – dei vecchi ferrovieri che giocavano a scopone, a tresette, col mezzo litro, urbanamente, civilmente, ma un po’ rumorosi. Noi ci siamo messi in un angolo, io mi sono sporto – io poi non ho una gran voce, sono un po’ afono – e ho cominciato a leggere. E Germi stava appoggiato, col suo sigaro, centellinando il bicchiere di vino. E io leggevo. E non solo dovevo leggere, ma dovevo patronizzare quello che avevo scritto, per cui lo recitavo un po’. Eogni tanto lo guardavo; e lo trovavo intento, con gli occhi lucidi, se era un passo commovente (nel Ferroviere ce n’erano parecchi, era abbastanza struggente in certe cose). Improvvisamente si sentiva osservato e allora si copriva; e poi mi guardava tra le dita. In seguito, quando ho cominciato a prendere bene il via, dopo due o tre incontri, l’ho sorpreso con grande emozione – come certe mamme, quando i figli recitano la poesia, che ripetono le parole – con un atteggiamento infantile, purissimo, struggente. Poi accadde che la seconda volta che siamo andati in questa osteria i ferrovieri hanno sentito qualche cosa e allora qualcuno ha detto: «Ssss, parliamo piano. Quelli stanno leggendo». Così hanno deciso tutti quanti di avere un minimo di rispetto – anche se questa non è la parola giusta. E sa com’è finita? Che ci hanno offerto il vino e ci siamo dati appuntamento. Insomma, Il ferroviere, prima di uscire sullo schermo – con Germi che era felicissimo di questa cosa – è stato letto a quindici ferrovieri, che erano sempre gli stessi che venivano lì. Germi stava ad ascoltare e intanto se li guardava tutti, vedeva le reazioni sui visi. E da questa cosa ha capito che tipo di popolarità avrebbe avuto il film. E poi mi ricordo che quando il film fu finito – era scritto a mano e dovevamo darlo a Ponti – io dissi: «Bisogna portarlo in copisteria. Io, francamente, non ce li ho i soldi». Perché andare in copisteria costava, allora. Allora lui il giorno dopo venne e disse: «Conosci qualcuno che vuol comprare una Leica?» Così ha venduto la Leica e con i soldi abbiamo fatto battere a macchina Il ferroviere. Questi sono bei ricordi, no? Nell’ordine delle cose proprio giuste per Germi, questo personaggio sentimentale – anche se sentimentale è sempre una parola diminutiva e riduttiva. E poi quando ormai stava morendo alla Mater Dei – mi teneva la mano, non parlava (stava proprio molto male, è morto due giorni dopo) – un giorno, di punto in bianco, mi ha detto: «Io ti ho fatto dei grandi torti». E io: «Ma chedici? Stai zitto, riposati, riposati». E lui ha continuato a guardarmi, poi ha chiuso gli occhi e si è addormentato. E questa probabilmente è una cosa che lui aveva, ma della quale non ho mai sofferto, in realtà: lui era portato ad attribuirsi le cose. Per esempio, quella cosa de Il ferroviere, che io ho desunto da un ricordo della mia infanzia. Io gli feci leggere il racconto Il treno, spiegandogli che l’idea di questa novella era partita da un’immagine che io avevo, avendo vissuto in una casa di ferrovieri. Mi ricordavo di un bambino che a una cert’ora usciva di casa e andava a prendere il padre che stava in osteria. Lo prendeva e lo portava a casa per mano, questo omone, macchinista delle ferrovie, ubriaco. Il quale ferroviere ubriaco, appena entrava nel cortile, quello su cui si affacciavano le finestre di tutti i fabbricati, siccome il bambino si vergognava di portare per mano questo padre barcollante, lui si metteva dalla parte del muro, teneva la mano del bambino e con l’altra mano toccava il muro per camminare dritto, guardando con sfida le finestre. Gli raccontai questa cosa. La cosa lo colpì. Successivamente ho letto in alcune interviste che lui diceva: «Mi è nata questa idea, perché io vedevo…» Io non gli ho mai detto: «Perché ti attribuisci queste cose? O non le dici per niente, o se dici che è una cosa mia non è che ti diminuisce». E lui forse non se ne accorgeva nemmeno, non si accorgeva di farmi un torto. Io amo pensare così. Sta di fatto, però, che all’ultimo mi ha guardato, mi teneva la mano – mi faceva una pena perché era ridotto… una cosa incredibile,- e mi ha detto: «Ti ho fatto dei grandi torti».

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